CAPITOLO XLVI ANCORA DELLA STRAVAGANTE MANIERA CON CUI FU INCANTATO DON CHISCIOTTE. «Lessi già, disse don Chisciotte, quando si vide ingabbiato a quel modo e messo sopra il carro, molte e gravi istorie di cavalieri erranti, ma non ho letto, né veduto, né udito mai che sieno stati in tal guisa condotti gli incantati cavalieri, né colla lentezza propria di questi infingardi e melensi animali. Furono sempre portati per aria con incredibile rapidità, rinchiusi in qualche nube oscura o di color cinerognolo, ovvero sopra qualche carro, ippogrifo od altro simigliante animale. Non posso intendere com'io abbia a vedermi trascinato adesso da un carro tirato da buoi: ma chi sa che la cavalleria e gli incanti dei nostri tempi non abbiano preso una piega diversa da quelli degli antichi! Potrebbe anche darsi che essendo io, come lo sono, nuovo cavaliere nel mondo ed il primo che ha risuscitato l'esercizio già disusato della errante cavalleria, siensi per la stessa ragione inventati nuovi generi di incantesimi e nuove forme di condurre gli incanti: che te ne sembra, Sancio, figliuolo? Non saprei che rispondere, disse Sancio, perché non so un'acca delle scritture cavalleresche; per altro ardirei affermare e giurare ancora che tutte le visioni alle quali noi andiamo incontro non sono pienamente cattoliche. Altro che cattoliche, che Iddio ci aiuti, rispose don Chisciotte! Come possono esserlo mai se non si tratta che di demoni, i quali hanno pigliati corpi fantastici per operare siffatte stravaganze e guidarmi a sì deplorevole situazione? E se tu voi conoscere in fatto una tale verità, toccali, palpali, e vedrai che non hanno corpo se non se d'aria, e non sono che mere apparenze. Viva Dio, replicò Sancio, io li ho toccati, o signore, e questo diavolo qui, il quale cammina con tanta prestezza, ha una carne soda come una pietra; e in questo ancora è differente da quello che ho inteso dire dei diavoli, perché io so che essi puzzano di zolfo e di altri pessimi odori, ma costui dà una eccellente fragranza d'ambra, che si sente mezza lega lontano.» Sancio indicava così don Fernando; il quale, come dilicato signore, solea mantenersi olezzante della persona. Non farne punto le maraviglie, amico Sancio, rispose don Chisciotte, perché ti assicuro che anche i diavoli tengono dei profumi, e ne sogliono portare seco; ma non possono tramandarli a noi per essere spiriti: o se pure ne tramandano, non sono mai grati, ma fetidi e puzzolenti; e la ragione si è perché portano seco l'inferno dovunque vanno, e non debbono trovar mai sollievo di sorta alcuna dai loro tormenti; laonde, poiché il grato olezzo è una cosa che soddisfa e diletta, non è possibile mai che ne sieno in possesso: e se pare a te, come dici, che questo demonio odori di ambra, o tu certamente t'inganni o egli vuole ingannarti affinché tu nol tenga per un demonio.» Passarono tutti questi colloqui tra padrone e servitore; e temendo don Fernando e Cardenio che Sancio non colpisse nel segno rispetto alla loro invenzione, di cui lo vedevano già entrato in sospetto, determinarono di affrettare la partenza. Chiamando perciò a parte l'oste, gl'imposero che insellasse Ronzinante e mettesse la bardella al giumento di Sancio, il che egli tosto eseguì. Aveva frattanto il curato patteggiato cogli sgherri perché accompagnassero don Chisciotte sino alla sua terra, contribuendo loro un tanto per giorno. Cardenio attaccò da un lato dell'arcione della sella di Ronzinante la targa e dall'altro il bacino, poi con cenni comandò a Sancio che montasse sul suo asino, e che prendesse Ronzinante per la briglia, e collocò ai due lati del carro due sgherri coi loro archibusi. Prima che il carro si movesse uscirono fuori l'ostessa, sua figlia e Maritorna, per prender licenza da don Chisciotte, fingendo di piangere per compassione della sua disgrazia. Egli disse loro: Non piangete, no, mie buone signore, che tutte queste avversità sono così consuete alla professione ch'io esercito: e se non mi accadessero tante traversie non porterei il vanto di famoso cavaliere errante, perché ai cavalieri di poco conto e di poca celebrità non avvengono di simiglianti sciagure, non essendovi al mondo chi mai li rammenti: sono riservate ai valorosi, come a coloro che sono invidiati da molti principi e da tanti cavalieri che tentano nuocere ai meritevoli con i mezzi più indiretti e maligni. La virtù sola è ad onta di ciò sì possente che da per sé, e a dispetto di quanta negromanzia fosse mai saputa dal suo primo inventore Zoroastro sino a noi, riuscirà salva da ogni pericolo, e darà di sé così chiara luce al mondo come la dà il sole al cielo. Perdonatemi, belle dame, se per qualche mia trascuraggine vi avessi apportato dispiacere; che di animo deliberato non so di averne mai fatto alcuno; e pregate Dio che uscire mi faccia da questa prigione, dove mi ha posto un qualche incantatore perverso. Se un giorno n'escirò libero non mi fuggiranno giammai dalla memoria i favori da voi ricevuti in questo castello, e vi mostrerò la mia gratitudine col servirvi e ricompensarvi come meritate.» Nel tempo che le supposte dame del castello conversavano con don Chisciotte, il curato e il barbiere si accommiatarono da don Fernando e dai compagni suoi, dal capitano, da suo fratello e da tutte quelle contente signore, e specialmente da Dorotea e da Lucinda; e si abbracciarono tutti promettendosi a vicenda di darsi notizie dei loro successi. Don Fernando indicò al curato dove potesse scrivergli per informarlo come la sarebbe finita in riguardo a don Chisciotte, assicurandolo che gli sarebbe riuscito graditissimo l'averne le nuove; e ch'egli poi gli avrebbe dato ragguaglio di tutto ciò che potea soddisfarlo così rispetto al suo maritaggio, come al battesimo della bella Zoraida, all'affare di don Luigi ed al ritorno di Lucinda in seno alla sua famiglia. S'impegnò il curato di eseguire con ogni esattezza quanto gli veniva raccomandato, reiteraronsi gli abbracciamenti una e più volte: e rinnovaronsi reciprocamente le gentili offerte. L'oste si accostò al curato, e gli consegnò alcune carte dicendogli di averle trovate nella fodera del valigiotto dove stava la Novella del curioso indiscreto, e che non essendo più tornato il suo padrone a ricuperarle, se le recasse pure con sé, non facendone egli verun caso per non saperle ben decifrare. Le aggradì il curato, e spiegandole sull'istante vide che in fronte degli scritti leggevasi: Novella di Ricometto e Cortadiglio. Immaginando che si trattasse di qualche piacevole storietta, ed avendo molto gradito l'altra del Curioso indiscreto, suppose che anche questa lo avrebbe soddisfatto, potendo darsi che fossero state composte ambedue da un medesimo autore: la tenne dunque custodita, riserbandosi di farne la lettura a tempo più opportuno. Montò a cavallo, e così pure il barbiere suo amico, ambedue involti nei loro pappafichi per non essere così presto riconosciuti da don Chisciotte. Camminavano dietro il carro coll'ordine seguente: prima era il carro guidato dal suo carradore; ai due lati lo accompagnavano gli sgherri, come si è detto, coi loro archibusi: veniva poi Sancio Pancia sopra il suo asino, tenendo la briglia di Ronzinante; ed ultimi erano il curato ed il barbiere a cavallo delle loro grandi e poderose mule colle facce tutte coperte, e con grave e serioso contegno adattandosi al tardo passo dei buoi. Stava don Chisciotte seduto nella gabbia colle mani legate, coi piedi distesi ed appoggiato alle grate, sì taciturno e paziente come se non fosse stato uomo di carne, ma statua di pietra. Con lentezza e in silenzio viaggiarono per oltre due leghe, finché giunsero ad una valle che parve al carradore sito opportuno per prendere qualche riposo e pascere i buoi. Lo disse al curato; ma il barbiere fu di avviso che seguitassero il cammino ancora alcun poco, sapendo egli che dietro a un poggetto che scorgevasi poco discosto, vi era altra valle fornita di erba molto migliore. Fu accolto il consiglio del barbiere, e continuarono il viaggio. Intanto volgendosi addietro il curato, vide sei o sette uomini a cavallo bene assettati e vestiti, i quali presto raggiunsero il convoglio perché marciava colla lentezza dei buoi. Uno di costoro, ch'era un canonico di Toledo e il padrone di tutti gli altri che lo accompagnavano, vedendo la ben ordita processione del carro, degli sgherri, di Sancio, di Ronzinante, del curato, del barbiere, e più di ogni altro, di don Chisciotte, ingabbiato ed imprigionato, non poté a meno di non domandare che cosa significasse il condurre un uomo a quel modo; benché si fosse immaginato, nel vedere la sbirraglia, che dovesse essere colui un qualche facinoroso o assassino di strada, od altro cattivo soggetto così castigato dalla Santa Hermandada. Quello tra gli sgherri cui venne fatta la dimanda rispose: Signore, neppure noi sappiamo che voglia significare un tal modo di condurre questo cavaliere, né alcuno meglio di lui stesso ve lo potrà dire.» Udì don Chisciotte il discorso, e soggiunse: Di grazia, le signorie vostre, signori cavalieri, sono elleno versate e perite in materia di errante cavalleria? Se lo sono io darò lor conto delle mie disgrazie, ma in caso diverso non perderò il mio tempo in inutili ciarle.» Si erano già avanzati in questo mentre il curato ed il barbiere (vedendo don Chisciotte in discorso coi passeggieri) a fine di rispondere eglino in modo che non si scoprisse il loro artifizio. Il canonico a cui don Chisciotte aveva indirizzato il discorso, rispose: Se ho da dirvi il vero, o fratello, io tengo più sulle dita i libri della cavalleria delle Sommele di Villapando, e perciò se questa è la difficoltà che voi potreste avere, essa è tolta, e parlate. Lodato sia Iddio, replicò don Chisciotte, poiché siete conoscitore di questi affari io bramo, signor cavaliere, che voi sappiate ch'io me ne vo strascinato in questa gabbia per invidia e frode d'incantatori maligni, essendo che la virtù è più perseguitata dai tristi che amata dai buoni. Cavaliere errante sono io, ma non già di quel novero che non merita che la fama ne renda eterno il nome per celebrità, ma sì bene di quelli che a dispetto e in onta dell'invidia medesima e di quanti maghi creò la Persia, bracmani l'India, ginnosofisti l'Etiopia, ha da collocar il suo nome nel tempio dell'immortalità perché serva d'esempio e di specchio dei vegnenti secoli agli erranti cavalieri, e segni loro il cammino per salir all'apice ed alla gloriosa altezza delle armi.» Disse il curato a tal punto: Č vero quanto si espone dal signor don Chisciotte della Mancia, il quale va incantato sopra questo carro non per veruna sua colpa, ma bensì per mala intenzione di quelli che odiano la virtù ed invidiano il merito. Questi è il signor cavaliere dalla Trista Figura, se l'avete inteso mai a nominare, le cui valorose imprese e strepitosi fatti resteranno scolpiti in duri bronzi ed eterni marmi, comunque l'invidia adoperi ogni sua possa per oscurare la sua gloria e la malignità per tenerla celata.» Quando il canonico sentì il prigioniero ed il libero a parlare in tal guisa fu per farsi un segno di croce, né sapea credere a sé stesso quello che gl'interveniva; e così anche tutti i compagni. Sancio Pancia, che si era avvicinato, ed avea inteso il discorso, per aggiungervi le frange, disse: Signori, o mi vogliano bene o mi ributtino per quello che sto per dire, è tutt'uno. Tanto è vero che il signor don Chisciotte mio padrone sia incantato quanto è vero che la madre di voi altri abbia me partorito. Egli se ne sta perfettamente in cervello, mangia, beve e serve ad altre sue bisogne come il resto degli altri uomini, e come faceva ieri prima che lo ingabbiassero: e se così è perché mai vogliono farmi credere adesso che egli sia incantato? Ho inteso dire da molti che gli incantati non mangiano, non dormono, non parlano; ma il mio padrone, se non viene interrotto, parla più che trenta avvocati.» Voltandosi poscia verso il curato, proseguì dicendo: Ah signor curato, signor curato, cred'ella forse che io non l'abbia conosciuta? Pensa vossignoria che quantunque io sia cheto non indovini dove vadano a finire questi nuovi incantesimi? Sappia bene ch'io la raffiguro per quanto ella si copra bene la faccia, e sappia che io pure la intendo per quanto si sforzi di avviluppare i suoi imbrogli; in fine, dove regna la invidia non può vivere la virtù, né dove sta la miseria può aver luogo la liberalità. Maledetto sia il diavolo, che se non fosse per colpa di sua riverenza sarebbe a quest'ora il mio padrone ammogliato colla regina Micomicona, ed io sarei conte per lo meno; che altro non avrei potuto aspettarmi dalla bontà del mio signore dalla Trista Figura e dal merito della mia leale servitù. Io comprendo pur bene da tutto questo, quanto sia vero il proverbio: Che la ruota della fortuna gira più che una macchina da mulino; e quelli che ieri si trovavano in posto eminente, oggidì non hanno di che mangiare. Mi duole per i miei figliuoli, mi duole per la mia moglie, che quando potevano e dovevano sperare di vedermi ritornare già fatto governatore o viceré di qualche isola o regno, mi vedranno entrare in casa fatto mozzo di stalla. Tutte queste cose signor curato mio, non le dico per altro né che per pregare quanto più posso la vostra Riverenza ch'ella si rechi a coscienza il mal governo che fa di questo mio buon padrone; e badi bene che Dio Signore nell'altra vita non le dimandi conto della sua prigionia, e non le imputi a colpa se il mio signor don Chisciotte non soccorre i bisognosi, e non fa tutto quel bene che farebbe qualora fosse fuori di questa gabbia. Oh bella davvero: disse a questo punto il barbiere; voi pure, o Sancio, siete dello stesso avviso del vostro padrone? Viva il cielo che vo' vedendo che bisognerà tenere voi pure incantato al pari di lui in una gabbia, poiché pizzicate della sua pazzia, e andate così goffamente immaginando di dover essere governatore di un'isola. Io, rispose Sancio, non sono pazzo per nessun conto, ma galantuomo; e so che il mio padrone potrebbe conquistare tante isole da non trovare a chi darle; e guardi bene come parla vossignoria, signor barbiere, perché tutto non consiste al mondo nel fare delle barbe, e passa gran differenza da un Pietro a un Giovanni: ciò perché ci conosciamo tutti, e a me non si vendono lucciole per lanterne; e per quello che riguarda l'incantesimo del mio padrone, Dio sa la verità: ma lasciamo questa cosa, che tanto più puzza, quanto più si rimescola.» Non volle rispondere il barbiere perché Sancio non iscoprisse colla semplicità sua quello che tanto premeva di nascondere agli altri. Con questo fine il curato avea detto al canonico che camminasse un poco più, che gli svelerebbe l'arcano dell'ingabbiato con altre cose di sua soddisfazione. Lo compiacque il canonico, e andò innanzi co' suoi compagni e con lui, prestando attento orecchio a quanto il curato gli diceva sulla condizione, vita, pazzia e costumi di don Chisciotte; sull'origine e della causa delle sue stravaganze, e di tutto il seguito degli avvenimenti sino al punto dell'averlo rinchiuso in quella gabbia, per ricondurlo al suo paese e tentare qualche rimedio affine di sanarlo. Fecero nuovamente le meraviglie il canonico e i suoi servitori nell'udire la peregrina istoria di don Chisciotte; e quando l'ebbero ascoltata per intero, disse il canonico: Trovo per verità, signor curato, dal canto mio che sono di grande pregiudizio alla repubblica i così detti libri di cavalleria: e tuttoché anch'io istigato da un falso piacere li abbia conosciuti quasi tutti, non mi avvenne però mai di poterne leggere un solo dal principio al fine, trovandoli presso a poco tutti di una stessa pasta, né avendo l'uno merito maggiore dell'altro. Parmi che questo genere di libri e di composizioni cada nella classe delle favole così dette Milesie, che sono racconti spropositati i quali mirano a dilettare e non a dare insegnamento, a differenza degli apologhi che dilettano ed ammaestrano ad un tempo stesso. Se il fine principale di simiglianti opere è quello di ricrear l'animo, non so come possano giugnere a conseguirlo, essendo piene di tante stoltezze fuori d'ogni proporzione o credibilità. E infatti che vaghezza mai o quale proporzione di parti col tutto può spiegare un libro od una favola, dove un giovinotto di sedici anni dà un colpo a un gigante grande come una torre, e lo partisce in due come se fosse pasta di zucchero? E che si può credere quando ci vengono a dipingere una battaglia, raccontandoci che i due nemici contano da parte loro un milione di combattenti? Che diremo noi della facilità che ha una regina o imperatrice di darsi in balia di un errante e sconosciuto cavaliere? Qual ingegno mai, se non è barbaro e incolto del tutto, potrà restare soddisfatto leggendo che una gran torre piena di cavalieri solca da sé sola il mare come nave, guidata da prospero vento, ed oggi pernotta in Lombardia, e dimani trovasi allo spuntar del dì nelle terre del Pretegianni dell'Indie, e in altre ancora, che non furono mai scoperte da Tolomeo né vedute da Marco Polo? Né alcuno mi dica che gli autori di tanti libri scrivono ogni cosa per mera finzione, e che non sono punto tenuti alle leggi ordinarie; giacché tanto è più vaga la finzione quanto più al vero si avvicina, e tanto più gradita riesce quanto ha più in sé del dubbioso e del possibile. Le favole debbono associarsi al discernimento dei loro lettori ed essere scritte in modo che rendendo facili gl'impossibili, appianando le difficoltà, tenendo in sospeso gli animi, rendano il lettore o maravigliato o soddisfatto, e lo occupino in modo che la maraviglia vada di pari passo col diletto; né potrà mai conseguire un tal fine chi si scosta dalla verisimiglianza e dalla imitazione della natura in cui consiste la perfezione di uno scrittore. Non ho mai veduto libro di cavalleria che non somigli ad una chimera o ad un mostro piuttostoché a proporzionata figura. Oltre a ciò duro n'è quasi sempre lo stile, incredibili le imprese, lascivi gli amori, malaccorte le cortesie, eterne le battaglie, sciocchi i ragionamenti, spropositati i viaggi; tutto in somma è alieno da ogni ragionato artifizio e degno di essere bandito dal mondo cristiano, come pericolosa inutilità.» Lo stava ascoltando il curato con somma attenzione, parendogli uomo di grande intendimento, e che avesse ragione in tutto ciò che diceva. Gli rispose pertanto che avendo egli pure in odio i libri di cavalleria avea dato alle fiamme quelli che possedea don Chisciotte, i quali erano molti; del che non poco rise il canonico, il quale a fronte di tutto il male che ne avea detto, trovava però in essi una cosa buona ed era questa, che possono prestar materia ad un uomo di vaglia di farsi onore, dando libero corso alla penna per descrivere naufragi, tormenti, incontri e battaglie; per dipingere un capitano valoroso in tutte le parti che si ricercano ad essere tale; per mostrarlo prudente nell'antivedere le astuzie dei suoi nemici od oratore eloquente nel persuadere o sconsigliare i suoi soldati, maturo nel consiglio, veloce nell'eseguire, e valente sì nel difendersi come nell'assalire. Opportuna può essere, seguitò a dire, la pittura o di un lamentevole e tragico avvenimento, o di un lieto e inatteso accidente: qua vedesi descritta una bellissima dama, onesta, avveduta e ritirata: là un cavaliere cristiano di gentile costume; altrove uno sfacciato e barbaro prepotente o un principe cortese, pieno di valore ed accorto, e rappresentare si può bontà e lealtà di vassalli o grandezze e premi di signori. Ha l'autore opportunità di mostrarsi astrologo, cosmografo, musico, conoscitore delle materie di stato, politico, e talvolta si può offrire l'occasione di farsi credere anche negromante, se così gli piaccia. Può egli mettere in mostra le accortezze di Ulisse, la pietà di Enea, il valore di Achille, le sventure di Ettore, i tradimenti di Sinone, l'amistà di Eurialo, la magnanimità di Alessandro, la valentia di Cesare, la lealtà e clemenza di Traiano, la fedeltà di Zopiro, la prudenza di Catone, e tutte quelle azioni finalmente che possono rendere perfetto un personaggio illustre, ora in un solo raccogliendole, ora dividendole in molti. Facendo tutto questo con istile piacevole e con ingegnosa invenzione che miri possibilmente al vero, comporrà l'autore una tela tessuta di varī e bei lacci, che nel suo insieme mostrerà tale perfezione e bellezza da conseguire miglior fine di ogni scritto, cioè l'utile insieme e il diletto. La libera composizione di siffatte opere apre finalmente il campo all'autore di farsi conoscere epico, lirico, tragico, comico, con le parti tutte che si rinchiudono nelle dolcissime e gradite scienze della poesia e dell'oratoria: ché l'epica si può dettare in prosa non meno che in verso. |