CAPITOLO XLIV SANCIO PANCIA È CONDOTTO AL GOVERNO. STRANA AVVENTURA ACCADUTA A DON CHISCIOTTE. Cid Hamete, per quanto si dice nel genuino originale di questa opera, dovendo scrivere il presente capitolo, lo cominciò con un esordio che l'interprete non tradusse con scrupolosa fedeltà. Perocché lo scrittore Moro duolsi in quell'esordio di avere posto mano ad un'istoria arida e limitata come si è questa di don Chisciotte, in cui continuamente si parla di lui e di Sancio, senza osar di estendersi ad altre digressioni od episodi più gravi e più dilettevoli. Diceva egli che occupare mai sempre l'intelletto, la mano e la penna a scrivere di un solo soggetto, e a parlare colla bocca di poche persone, era un'intollerabile fatica, il cui frutto non ridondava in vantaggio dell'autore. Diceva in oltre che per sottrarsi da questo inconveniente si era valso nella prima Parte dell'artifizio d'inserire alcune Novelle, come furono quelle del Curioso impertinente e del Capitano schiavo, che sono in certo modo separate dalla istoria, essendoché le altre che vi si raccontano, son casi successi al medesimo don Chisciotte, sicché non si potea tralasciare di notarli. Ma d'altra parte pensò, come asserisce egli stesso, che trasportati molti dall'attenzione che esigono le prodezze di don Chisciotte, non sarebbero stati in grado di prestarla alle novellette, ma che le avrebbero scorse o all'infretta o con noia senza por mente alla vaghezza ed all'artifizio che in sé contengono, il quale scopertamente si mostrerebbe quando fossero escite alla luce staccate del tutto dalle pazzie di don Chisciotte e dalle balordaggini di Sancio Pancia. Per questi motivi il citato autore in questa seconda Parte non volle innestare Novelle sciolte né legate, ma introdusse qualche episodio nato dai successi medesimi, il che è più verisimile, e questo pure limitatamente e colle sole parole che bastano a dichiararlo. Si contenne e rinserrò negli stretti limiti della narrazione, benché possedesse abilità, sufficienza e intendimento per trattare dell'universo intero; ed è quindi dovere che non si abbia a vile la sua fatica, anzi gli si dieno lodi, non tanto per quello che scrive, quanto per quello che ha tralasciato di scrivere. Dopo questo preambolo, continua la leggenda nel modo seguente: Don Chisciotte dopo terminato il pranzo nel giorno in cui diede i consigli a Sancio, glieli fece tenere nella stessa sera al tardi in iscritto affinché da qualcuno se li facesse leggere; non glieli avea però appena consegnati che caddero, e pervennero in mano del duca, il quale li comunicò alla duchessa, e tutti e due nuovamente stupirono della pazzia e dell'ingegno del cavaliere errante. Tirando eglino innanzi colle burle mandarono quella sera Sancio con grande accompagnamento al paese che per lui dovea essere isola. Colui pertanto che lo guidava colla sua responsabilità, era quello stesso maggiordomo del duca molto discreto e grazioso (che non si dà grazia dove non è discrezione), il quale avea rappresentato il personaggio della contessa Trifaldi col buon garbo che abbiamo detto. Quest'uomo bene istrutto e avvertito da' suoi padroni del modo che dovea tener con Sancio, riuscì a maraviglia nella esecuzione del suo impegno. Ora dunque avvenne che quando Sancio vide tal maggiordomo, raffigurò nel suo viso quello stesso della Trifaldi, e dirizzandosi al suo padrone gli disse: O mi ha da portare il diavolo via di qua dove io sono bello ed intero, o mi ha a confessare la signoria vostra che il volto di questo maggiordomo del duca, che sta qui, è quello stesso della Trifaldi.» Don Chisciotte guardò e riguardò attentamente il maggiordomo, e poi disse a Sancio: Non occorre che il diavolo ti porti, o Sancio, né bello né intero, perché il viso della Trifaldi è proprio quello del maggiordomo: ma non è per questo che il maggiordomo sia la Trifaldi; ché se ciò fosse implicherebbe grandissima contraddizione: ma non è tempo questo di avverare tali circostanze, mentre sarebbe un voler entrare in labirinto molto intricato. Credimi, amico, che fa mestieri pregare nostro Signore con molto affetto, perché ci liberi dai cattivi stregoni e dai tristi incantatori. Ma questa non è burla, replicò Sancio, perché ho chiaramente intesa la sua voce, e non altro mi è suonato all'orecchio che la voce della Trifaldi. Basta per ora; non si parli altro, ma non tralascerò in avvenire di star cogli occhi aperti per vedere se qualche altro segnale confermi o distrugga i miei sospetti. Così dèi fare, Sancio, disse don Chisciotte, e mi porrai al chiaro di ogni tua scoperta in tale proposito, e di qualunque cosa che nel governo sarà per succederti. Sancio in fine partì accompagnato da gran comitiva vestito da legale, con sopra l'abito un gabbano molto splendido e largo di ciambellotto a once, e con berretto pure di ciambellotto. Cavalcava un mulo alla ginetta, e dietro a lui per comando del duca andava il leardo con fornimenti e guarnizioni giumentili di seta fiammeggianti. Sancio voltava il capo di quando in quando per guardare il suo asino, in compagnia del quale andava tanto contento che non l'avrebbe ceduto ad un imperatore. Nel prendere licenza dai duchi baciò loro la mano, e si prese la benedizione del suo signore, che gliela diede colle lagrime agli occhi, e la ricevette Sancio colle gote gonfie, come fanciullo che stia per piangere. Lascia, o lettor garbato, andare in pace e in buon'ora l'ottimo nostro Sancio, e attenditi due staia di risa che ti ha a produrre il sapere come si portò nel suo governo; frattanto ascolta quello che avvenne in quella notte al suo padrone: che se con questo racconto non riderai, comporrai per lo meno, come suol dirsi, le labbra a ghigno di scimmia; perché gli avvenimenti che riguardan don Chisciotte, od hannosi a celebrare con ammirazione o con festività. Raccontasi dunque che appena partito Sancio sentì don Chisciotte il peso della sua solitudine; e se gli fosse stato possibile rivocare la commissione e torgli il governo, lo avrebbe fatto. Fu conosciuta dalla duchessa la sua malinconia, e lo domandò perché stesse di sì malavoglia: che se ciò fosse per la partenza di Sancio, egli avrebbe potuto avere nella sua corte in vece di lui, a suo libero comando altri scudieri, e matrone e donzelle. È vero, signora, rispose don Chisciotte, che mi pesa la lontananza di Sancio, ma non è questo il principale motivo che mi fa parere malinconico: quanto poi alle molte offerte che mi va facendo la bontà vostra, io non le accetto; solo sono contento della egregia intenzione con cui si fanno, e di nient'altro supplico vostra eccellenza fuorché di consentire e permettere che io nella mia stanza e da per me solo mi serva. In verità, signor don Chisciotte, disse la duchessa, che così non ha da essere, perché intendo che restino ai suoi comandi quattro delle mie donzelle, belle e fresche come tante rose. Non sarebbero rose per me, disse don Chisciotte, ma tante spine che mi pungerebbero l'anima; e tanto è possibile ch'io le lasci entrare nella mia camera com'è possibile ch'elleno volino. Se è vero che piaccia alla vostra grandezza di continuare a spargere su di me i suoi favori con prodiga mano, tuttoché io non li meriti, mi usi quello di lasciarmi in piena balìa. Io prescelgo di essere il servitore di me medesimo nella mia solitudine, dove alzerò una muraglia fra i miei desiderî e la mia onestà, mentre perdere non voglio questo mio costume a cagione della liberalità che l'altezza vostra si compiace impartirmi: in conclusione io torrei di dormir vestito anzi che essere spogliato da chicchesia. Non più, non più, signor don Chisciotte, replicò la duchessa, che in quanto a me si appartiene, ordino risolutamente che neppure una mosca entri nella sua stanza, non ché una donzella; né io sono una persona la quale voglia mai che per causa mia abbia a venir meno la decenza del signor don Chisciotte; e tanto più che, per quanto ho potuto osservare, nella signoria vostra, campeggia l'onestà tra le tante sue maschie virtù. Vossignoria si spogli e si vesta da sé solo, a suo modo, e come e quando le piace, che non vi sarà chi glielo impedisca, e nella sua stanza troverà quanto mai può bisognare a chi dorme con la porta chiusa affinché nessuna naturale occorrenza la sforzi ad aprirla: viva mille secoli la gran Dulcinea del Toboso, e si estenda il suo nome per tutta la rotondità della terra, poiché ha meritato l'amore di un cavaliere sì valoroso ed onesto; i benigni cieli infondano poi nel cuore di Sancio Pancia, nostro governatore, il desiderio di compiere presto la sua disciplina, affinché il mondo torni a godere della bellezza di sì eccelsa signora.» Cui don Chisciotte rispose: L'altezza vostra ha parlato da sua pari, mentre nessuna cosa disdicevole ha mai da uscire di bocca dalle dame ben educate; e più venturosa e più conosciuta sarà al mondo Dulcinea per esser stata onorata dalle lodi della vostra grandezza, che nol sarebbe per quelle tutte che le avessero date i più grandi eloquenti della terra. Or via, signor don Chisciotte, replicò la duchessa, l'ora della cena è giunta, ed il duca certamente ci sta aspettando; venga la signoria vostra, ceniamo e poi andrà a letto; perché il viaggio che fece ieri a Candaia non fu sì corto che non debba averle prodotto qualche stracchezza. Non ne sento alcuna, o signora, rispose don Chisciotte, perché potrei giurare che in vita mia non ho cavalcato bestia più tranquilla né di miglior passo di Clavilegno; né so concepire quale causa abbia indotto Malambruno a privarsi di sì leggera e buona cavalcatura abbruciandola così male a proposito. Si può immaginare, replicò la duchessa, che a ciò siasi risolto siccome pentito del male fatto alla Trifaldi, alla compagnia e ad altre persone, e delle malvagità che come stregone e incantatore debbe avere commesse; e quindi abbia voluto levarsi dinanzi tutti gl'istrumenti del suo mestiere. Piacquegli d'incenerire il mezzo principale che gli dava maggior rimorso, e col quale inquietava più il mondo vagando di terra in terra; ed era Clavilegno, con le cui abbruciate ceneri e col trofeo del castello si è reso eterno il valore del gran don Chisciotte della Mancia.» Nuovi ringraziamenti fece don Chisciotte alla duchessa, e terminato ch'ebbe di cenare, si ritirò solo nella camera senza permettere ad alcuno di entrare a servirlo: sì grande era il suo timore d'inciampare in occasioni che lo movessero e forzassero a perdere l'onesto decoro che serbava alla sua signora Dulcinea, tenendo sempre d'innanzi alla immaginazione la bontà di Amadigi, fiore e specchio degli erranti cavalieri. Si tirò dietro la porta, e spogliossi al lume di due candele di cera; ma allo scalzarsi (oh disgrazia indegna di sì grande soggetto!) scoppiarono, non già cose che screditassero la limpidezza della sua pulizia, ma intorno a due dozzine di maglie di una calzetta che rimase come un crivello. Si afflisse molto il buon signore, ed avrebbe pagato, per avere quivi un dramma di seta verde, un'oncia di argento; dico di seta verde, perch'erano verdi le calzette. O povertà! povertà! sclama Ben Engeli a questo passo, io non so per qual ragione il poeta cordovese si mosse a chiamarti santo dono ingratamente ricevuto! io, tuttoché Moro, so benissimo per la corrispondenza tenuta coi cristiani che la santità consiste nella carità, umiltà, fede, ubbidienza e povertà, contuttociò sostengo che ha da avere del divino colui che si contenta di essere povero, quando non fosse di quel genere di povertà di cui parlando dice uno dei maggiori suoi Santi: tenete le cose tutte come se non le aveste, e questa la chiamano povertà di spirito, ma tu, o secondo genere di povertà (ed è quella che io intendo di ricordare) perché vai tu a percuotere gl'idalghi e le persone bennate, piucché altra gente? perché li obblighi tu a rattoppare le scarpe ed a mettere i bottoni delle loro casacche alcuna volta di setole, altra di seta, ed altra di vetro? perché i collari che portano hanno ad essere sparpagliati per la maggior parte e non a lattughe aperte? (e da ciò verrassi a conoscere quanto sia inveterato l'uso dell'amido e dei collari a lattughe); e poi seguitò a questo modo: «Povero è bene colui che uscito da buoni natali va deturpando l'onor suo, mangiando male a porte serrate, portando lo stuzzicadenti fuori di casa per apparenza e per dar altrui ad intendere di avere mangiata cosa per cui si rende necessario pulirli! Povero è bene colui, ripeto, che dall'onore è fatto pauroso, e teme che pur una lega da lungi se gli scuoprano e osservino i tacconi delle scarpe, il sudore del cappello, il tessuto del ferraiuolo, e la fame che lo tormenta!» Tutte queste considerazioni si offrirono alla memoria di don Chisciotte quando si sciolsero le maglie della calzetta, ma si racconsolò poi vedendo che Sancio gli aveva lasciato certi stivali da viaggio, che egli divisò di calzare nel dì seguente. Andò finalmente a letto pieno di pensieri e di amarezze, sì per l'assenza di Sancio come per la irreparabile disgrazia delle calzette, le cui maglie avrebbe eziandio rassettate se avesse potuto con seta di altro colore; ch'è uno dei maggiori indizi di miseria che un idalgo ed una persona bennata possa dare nel corso della costante sua povertà. Spense la candela, ma pel gran caldo non poteva dormire. Alzossi dal letto, aperse un cotal poco una finestra che riusciva sopra delizioso giardino, e nell'aprirla conobbe ed udì che vi era gente la quale ragionava. Si mise ad ascoltare con attenzione, e quelli che stavano abbasso alzarono la voce tanto che egli poté udire il seguente discorso: Non insistere, Emerenzia, perché io canti, mentre ti è noto che dal primo istante in cui il forestiere entrò in questo castello, e lo mirarono gli occhi miei, io non so più cantare ma solamente piangere: e tanto più che il sonno della mia padrona è leggiero anzi che no, né vorrei che ci sorprendesse qua per tutto l'oro del mondo. Oltre di che s'ella in preda al sonno non si destasse, a vuoto riescirebbe il mio canto se dorme, e non si desta a sentirlo il novello Enea ch'è arrivato alle mie regioni per lasciarmi schernita. Non credere no questo, o amica Altisidora (altra voce diceva), perché la duchessa e quanti soggiornano in questa casa dormono tutti, fuorché il dominatore del tuo cuore, e lo svegliarino della tua anima; ché avendolo io sentito or ora aprire la finestra della sua stanza deve senz'altro essere desto. Canta pure o dogliosa mia, in tono basso e soave al suono della tua arpa; e se pure la duchessa ci sente, noi incolperemo il caldo che ci molesta. Non istà nel caldo la difficoltà, o Emerenzia, rispose Altisidora: egli è che non vorrei che il mio canto tradisse i segreti del mio cuore, e si facessero giudici miei quelli che non conoscendo quanto sia possente la forza d'amore, mi giudicherebbero forse donzella capricciosa e leggera: ma seguane che vuole, egli è meglio arrossire in viso che rimanere vittima del cordoglio:» ed in così dire cominciò a suonar un'arpa molto soavemente. Restò don Chisciotte, ciò udendo, trasecolato, perché in quell'istante se gli presentarono alla memoria le infinite venture simili a quella, di finestre, cioè, inferriate, giardini, musiche, concerti amorosi e svenimenti da esso letti nei suoi spropositati libri di cavalleria. S'immaginò subito che qualche donzella della duchessa fosse innamorata di lui, e che l'onestà la sforzasse a tener celate le sue fiamme. Temeva di non esporsi a troppo pericolo, e propose fermamente seco medesimo di non lasciarsi vincere. Raccomandandosi dunque col più vivo del cuore e con ogni buona volontà alla sua signora Dulcinea del Toboso, stabilì di ascoltare la musica: e per far sapere ch'egli era colà, finse di stranutire; di che non poco si rallegrarono le donzelle, le quali altra cosa non desideravano che di essere udite da don Chisciotte. Posta pertanto in ordine ed accordata l'arpa Altisodora cantò la seguente canzone: «O tu che stai nel tuo letto fra lenzuola di tela olandese, sdraiato dalla sera al mattino. «Valorosissimo de' cavalieri che mai producesse la Mancia, più casto e più puro del fino oro d'Arabia; «Ascolta una giovane innamorata mal corrisposta, che arde al raggio de' tuoi due soli. «Tu vai cercando venture, e intanto sei causa delle sventure altrui; tu ferisci e ricusi di rimediar alle piaghe che vai facendo. «Dimmi o giovine valoroso (così Dio ti liberi da ogni affanno), sei tu nato nei deserti della Libia o sulle montagne del Jacca? «Ti allattarono forse i serpenti? o fosti per avventura allevato fra l'orrore delle foreste e l'asprezza delle montagne? «Dulcinea! giovine, fresca e di fiorente salute, può darsi vanto di avere ammansato una tigre, una belva feroce. «Per questa vittoria essa andrà famosa dall'Henares al Jarame, dal Tago al Manzanare, dalla Pisverga all'Arlanza. «Quanto volentieri vorrei esser lei; e ne darei anche per sopra mercato il più bello dei miei abiti, quello ornato con frangie d'oro. «Oh quale felicità! vedersi nelle tue braccia, od almeno presso il tuo letto grattandoti la testa. «So ch'io domando troppo gran cosa, e della quale non sono degna: vorrei soltanto lavarti i piedi; questo è pur sufficiente ad una umile amante. «Quante cuffie e scarpettine e calze stupende e mantelli d'Olanda io ti darei! «Quante fine perle ti donerei e sì grosse che per essere senza pari sarebbero chiamate le uniche. «Non contentarti di mirare dall'alto della rupe tarpea l'incendio che mi consuma, o valoroso Mancego, Nerone del mondo, né rinforzar questo incendio col tuo rigore. «Io sono giovine e tenera verginella, la mia età non è maggiore di quindici anni, perché sull'anima mia e sulla mia coscienza ne ho soltanto quattordici e tre mesi. «Io non sono né gobba né zoppa, non sono rattratta delle mani: ed ho capegli simiglianti a gigli che si strascinano sul suolo a' miei piedi. «Comunque sia aquilina la mia bocca, e il naso un cotal po' rincagnato, ciò non pertanto, perché i miei denti sono topazi, la mia bellezza ne riceve anzi splendore. «In quanto alla mia voce se tu ora mi ascolti potrai persuaderti ch'essa non teme il paragone delle più dolci: la mia persona è piccioletta anzi che no. «E tutte queste grazie e tutto quanto posseggo è spoglia riserbata per te. Io sono in questa casa damigella di compagnia; il mio nome Altisodora.» Qui ebbe fine il canto della malferita giovane, e cominciamento lo stupore da cui fu colto l'amato don Chisciotte; il quale mettendo grande sospiro, disse seco medesimo: E che? sarò io dunque cavaliere errante sì sventurato che non possa esistere donzella la quale mi guardi e di me non s'innamori? e dovrà essere sì poco avventurosa la senza pari Dulcinea del Toboso che le sia tolto di godere della incomparabile fermezza mia? O regine, che pretendete da lei? a che la perseguitate o imperatrici? perché la invidiate, o donzelle di quattordici anni? Lasciate, deh lasciate che la meschina trionfi; che goda, vinca ed esulti con la sorte che si piacque donarle Amore quando le rese schiavo il mio cuore e la fede dominatrice dell'anima mia: avvertite bene, o innamorate donzelle, che per lei sola io sono pieghevole come cera, ma sono proprio di marmo per le altre tutte: miele sono io per lei, aloe per voi: per me la sola Dulcinea è adorna di bellezza, discreta, onesta, galante, bennata, e le altre donne mi appaiono brutte, scipite, leggere e del più basso lignaggio: nacqui al mondo per esser suo unicamente e non di verun'altra: pianga o canti Altisodora, si disperi anche quella dama per cui amore mi bastonarono nel castello del Moro incantato, ma io debbo esser di Dulcinea a lesso, a rosto, e pulito, ben creato, onesto a dispetto di tutte le fattucchiere podestà della terra.» E con questo chiuse impetuosamente la finestra, e sdegnato e pensoso, come se accaduta gli fosse qualche disgrazia, si rimise nel letto, dove lo lasceremo per adesso, perché ci chiama il gran Sancio Pancia che vuol dare principio al suo famoso governo. |