Don Chisciotte della Mancia
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CAPITOLO LXXI

DEGLI AUGURI CH'EBBE DON CHISCIOTTE ALL'ENTRARE NEL SUO PAESE CON ALTRI AVVENIMENTI CHE ADORNANO E ACCREDITANO QUESTA GRANDE ISTORIA.

CAPITOLO LXXI

All'ingresso nella terra natale, per quanto ci narra Cide Hamete Ben-Engeli, vide don Chisciotte che stavano in piazza a contendere due ragazzi e l'uno diceva all'altro: — Non ti affaticare, Periquillo, ché tu non la vedrai se campassi mille anni.» Udì questo don Chisciotte e disse a Sancio: — Hai tu sentito quello che ha detto quel ragazzo? Tu non la vedrai se campassi mille anni. — Che importa a noi che abbia dette queste parole? rispose Sancio. — Che importa? replicò don Chisciotte: non comprendi tu che applicandole alle mie intenzioni vogliono significare ch'io non rivedrò la senza pari Dulcinea del Toboso?»

Stava Sancio per rispondergli, quando ne fu distolto dal vedere una lepre che fuggiva perseguitata dai levrieri e dai cacciatori, e che tutta impaurita venne ad accovacciarsi sotto le gambe del suo leardo. La pigliò Sancio a mano salva, e la presentò a don Chisciotte, il quale esclamò: — Male signum, male signum! Che malaugurio può mai cavarsene?» I due ragazzi che contrastavano corsero a vedere la lepre, e Sancio dimandò ad uno di essi perché contendessero. Quello che aveva detto: — Tu non la vedrai se campassi mille anni,» rispose che aveva tolta al suo compagno una gabbia da grilli, ed aveva protestato di non restituirgliela mai più.

Arrivarono intanto i cacciatori, domandarono della lepre, e don Chisciotte la consegnò. Continuavano la loro strada quando incontrarono all'improvviso il baccelliere Sansone Carrasco ed il curato che recitava l'uffizio.

Smontò don Chisciotte, e li abbracciò strettamente. Stavano sulla porta la serva e la nipote, le quali avevano già avuto nuova del suo arrivo e l'avevano anche data a Teresa Pancia, moglie di Sancio, la quale tutta scapigliata, in carpetta, e menando per mano Sancetta, sua figliuola, corse a vedere il marito. Scorgendo che non era sì bene assettato della persona come pensava che dovesse essere un governatore, gli disse: — Che vuol dire, marito mio, che tu torni a questa maniera? Ei mi pare di vedere un mascalzone, un pelapiedi, e tu hai più cera da disgovernato che da governatore. — Taci, taci, Teresa, rispose Sancio, che il più delle volte l'uomo pensa che sia una cosa, ed è un'altra, né sempre dove sono stanghe v'è carne secca, e andiamo a casa che ti racconterò maraviglie e ti mostrerò i denari (che importa più di tutto) guadagnati colla mia industria, e senza danno di alcuno.

Don Chisciotte, senza aspettare termini, né ore, si appartò nello stesso punto col baccelliere e col curato, e confessò loro alle brevi la sua disfatta e l'obbligo in cui era di non uscire più, durante un anno, dal suo paese; il che avrebbe eseguito con rigore, né sarebbe uscito per un minuto, a solo fine di non trasgredire alla puntualità dovutasi all'ordine dell'errante cavalleria. Raccontò poi che aveva divisato di farsi, durante quell'anno, pastore. Supplicò in fine i suoi due amici, che se non avessero avuto grandi faccende, volessero diventare compagni suoi, che già aveva pensato a tutto. Il curato gli disse: — Vorrei sapere quali saranno i nostri nomi.

Rispose don Chisciotte che aveva a sé imposto il nome di Chisciottizzo pastore, al dottore quello di Carrascone, al curato quello di Curatambo, e a Sancio Pancia quello di pastore Pancino. Ognuno della casa stupì della nuova pazzia di don Chisciotte; ma perché non lasciasse un'altra volta il paese, né se ne tornasse alle sue cavallerie, si offrirono per compagni suoi nel suo nuovo esercizio. — E tanto più volentieri, disse Sansone Carrasco, che, come sa tutto il mondo, io sono poeta celeberrimo, e potrò ad ogni istante comporre versi pastorali e cortigiani, e come mi verrà meglio, purché non meniamo vita oziosa tra quelle catapecchie che dovremo abitare: ma poi importerà molto, signori miei, che ciascuno di noi elegga il nome della pastora, che sarà da celebrarsi nei nostri componimenti e che non si lasci arbore per duro che sia senzaché porti inciso il suo nome, com'è uso e costume di tutti gl'innamorati pastorelli. — Stupenda è questa osservazione, disse don Chisciotte, ma a me non accade di eleggere il nome della mia pastora, mentre voglio conservare quello della senza pari Dulcinea del Toboso, gloria di queste spiagge, ornamento di questi prati, sostegno della bellezza, modello della grazia, soggetto in somma su cui potrebbe fondarsi bene ogni lode per iperbolica che si fosse. — Va benissimo, soggiunse il curato, quanto a voi, e quanto a noi andremo cercando dove vorrà la sorte pastorelle più dozzinali, che se non ci quadreranno bene non possano almeno annoiarci. — Quanto a questo, disse Sansone Carrasco, se fossimo imbarazzati sulla scelta dei nomi, non ci mancherebbero quegli che sono in istampa e dei quali è pieno il mondo: Fillide, Amarilli, Diana, Florida, Galatea, Belisarda, già si vendono per le piazze, e non sarà poi gran cosa se verranno comprati da noi, e tenuti per nostri, e se per sorte la mia dama pastora si chiamasse Anna, io la celebrerei sotto il nome di Anarda, e se Francesca, la chiamerei Francenia, e se Lucia, Lucinda; che tutto viene ad essere una pietanza medesima: e Sancio Pancia (se pure avrà luogo nella nostra compagnia) potrà celebrare sua moglie Teresa Pancia col nome di Teresaina.»

Rise don Chisciotte dell'applicazione del nome, ed il curato portò alle stelle l'onorata ed onesta sua risoluzione, e si offrì di nuovo a tenergli compagnia in tutto il tempo che potrebbe disporre dopo adempiti gli obblighi suoi. Dopo questi discorsi si licenziarono, e pregarono e consigliarono don Chisciotte che avesse cura della sua salute e che badasse a governarsi il più che potesse.

Infrattanto menatemi a letto che mi pare di non istar troppo bene...La nipote e la serva avevano ascoltato tutto il dialogo seguìto fra i tre, e subito che i due se ne furono andati, l'una e l'altra entrarono nella camera di don Chisciotte, e la nipote gli disse: — Che faccenda è questa, signor zio? Adesso che noi altre pensavamo che vossignoria tornasse a ridursi a casa sua ed a condurre con noi vita quieta e onorata, ella vuole entrare in nuovi labirinti facendosi pastorello! Oh il bel pastorello! Vien qua, passa di là; eh! sappia pure che coll'orzo verde non si fanno zampogne.» Soggiunse la serva: — Come potrebbe vossignoria sopportare alla campagna i calori della state, i freddi dell'inverno, gli urli dei lupi? Questi sono esercizi da uomini forti e robusti, e allevati a quel mestiere sino dalle fascie, e sarebbe forse manco male l'essere cavaliere errante piuttosto che pastore: ci pensi vossignoria, pigli il mio consiglio, ché non glielo do mica dopo essere satolla di pane e di vino, ma a corpo digiuno e con i cinquant'anni che ho sulle spalle: stia a casa sua, tenga occhio attento alla sua roba, si confessi spesso, soccorra i poveretti, e se gliene riesce male dica che io sono cattiva femmina. — Tacete, figliuole, rispose don Chisciotte, ché io so benissimo quello che mi conviene, e infrattanto menatemi a letto che mi pare di non istar troppo bene. Tenete per certa cosa che, divenga io cavaliere errante o pastorello, non mancherò mai di aiutarvi di quello che avrete bisogno, e di accudire ai miei affari, come lo sperimenterete in effetto.» Le buone donne, ché tali erano senza dubbio serva e nipote, lo condussero a letto, e gli apprestarono il cibo ed ogni più affettuosa assistenza.

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