da "Vita dei campi" (1880)
Jeli il pastore
Jeli, il guardiano di cavalli, aveva tredici anni quando conobbe don
Alfonso, il signorino; ma era così piccolo che non arrivava alla pancia della Bianca,
la vecchia giumenta che portava il campanaccio della mandra. Lo si vedeva sempre di qua e
di là, pei monti e nella pianura, dove pascolavano le sue bestie, ritto ed immobile su
qualche greppo, o accoccolato su di un gran sasso. Il suo amico don Alfonso, mentre era in
villeggiatura, andava a trovarlo tutti i giorni che Dio mandava a Tebidi, e
dividevano fra di loro i buoni bocconi del padroncino, e il pane d'orzo del pastorello, o
le frutta rubate al vicino. Dapprincipio, Jeli dava dell'eccellenza al signorino,
come si usa in Sicilia, ma dopo che si furono accapigliati per bene, la loro amicizia fu
stabilita solidamente. Jeli insegnava al suo amico come si fa ad arrampicarsi sino ai nidi
delle gazze, sulle cime dei noci più alti del campanile di Licodia, a cogliere un passero
a volo con una sassata, a montare correndo di salto sul dorso nudo delle giumente ancora
indomite, acciuffando per la criniera la prima che passasse a tiro, senza lasciarsi
sbigottire dai nitriti di collera dei puledri indomiti, e dai loro salti disperati. Ah! le
belle scappate pei campi mietuti, colle criniere al vento! i bei giorni d'aprile, quando
il vento accavallava ad onde l'erba verde, e le cavalle nitrivano nei pascoli! i bei
meriggi d'estate, in cui la campagna, bianchiccia, taceva, sotto il cielo fosco, e i
grilli scoppiettavano fra le zolle, come se le stoppie si incendiassero! il bel cielo
d'inverno attraverso i rami nudi del mandorlo, che rabbrividivano al rovajo, e il viottolo
che suonava gelato sotto lo zoccolo dei cavalli, e le allodole che trillavano in alto, al
caldo, nell'azzurro! le belle sere di estate che salivano adagio adagio come la nebbia, il
buon odore del fieno in cui si affondavano i gomiti, e il ronzìo malinconico degli
insetti della sera, e quelle due note dello zufolo di Jeli, sempre le stesse - iuh! iuh!
iuh! - che facevano pensare alle cose lontane, alla festa di San Giovanni, alla notte di
Natale, all'alba della scampagnata, a tutti quei grandi avvenimenti trascorsi, che
sembrano mesti, così lontani, e facevano guardare in alto, cogli occhi umidi, quasi tutte
le stelle che andavano accendendosi in cielo vi piovessero in cuore, e l'allagassero!
Jeli, lui, non pativa di quelle malinconie; se ne stava accoccolato sul
ciglione, colle gote enfiate, intentissimo a suonare - iuh! iuh! iuh! - Poi radunava il
branco a furia di gridi e di sassate, e lo spingeva nella stalla, di là del poggio
alla croce.
Ansando, saliva la costa, di là dal vallone, e gridava qualche volta al suo
amico Alfonso: - Chiamati il cane! ohé, chiamati il cane! - oppure: - Tirami una buona
sassata allo zaino, che mi fa il capriccioso, e se ne viene adagio adagio,
gingillandosi colle macchie del vallone -; oppure: - Domattina portami un ago grosso, di
quelli della gnà Lia -.
Ei sapeva fare ogni sorta di lavori coll'ago; e ci aveva un batuffoletto di
cenci nella sacca di tela, per rattoppare al bisogno le brache e le maniche del giubbone;
sapeva anche tessere dei treccioli di crini di cavallo, e si lavava anche da sé colla
creta del vallone il fazzoletto che si metteva al collo, quando aveva freddo. Insomma,
purché ci avesse la sua sacca ad armacollo, non aveva bisogno di nessuno al mondo, fosse
stato nei boschi di Resecone, o perduto in fondo alla piana di Caltagirone. La gnà
Lia, soleva dire: - Vedete Jeli il pastore? è stato sempre solo pei campi, come se
l'avessero figliato le sue cavalle, ed e perciò che sa farsi la croce con le due mani! -
Del rimanente è vero che Jeli non aveva bisogno di nessuno, ma tutti quelli
della fattoria avrebbero fatto volentieri qualche cosa per lui, poiché era un ragazzo
servizievole, e ci era sempre il caso di buscarci qualche cosa da lui. La gnà Lia gli
cuoceva il pane per amor del prossimo, ed ei la ricambiava con bei panierini di vimini per
le ova, arcolai di canna, ed altre coserelle. - Facciamo come fanno le sue bestie, -
diceva la gnà Lia, - che si grattano il collo a vicenda -.
A Tebidi tutti lo conoscevano da piccolo, che non si vedeva fra le code
dei cavalli, quando pascolavano nel piano del lettighiere, ed era cresciuto, si
può dire, sotto i loro occhi, sebbene nessuno lo vedesse mai, e ramingasse sempre di qua
e di là col suo armento! «Era piovuto dal cielo, e la terra l'aveva raccolto» come dice
il proverbio; proprio di quelli che non hanno né casa né parenti. La sua mamma stava a
servire a Vizzini, e non lo vedeva altro che una volta all'anno, quando egli andava coi
puledri alla fiera di San Giovanni; e il giorno in cui era morta, erano venuti a chiamarlo
- un sabato sera - che il lunedì Jeli tornò alla mandra, sicché non ci rimise neppure
la giornata; ma il povero ragazzo era ritornato così sconvolto che alle volte lasciava
scappare i puledri nel seminato.
- Ohé, Jeli! - gli gridava allora massaro Agrippino dall'aja; - o che vuoi
assaggiare le nerbate delle feste, figlio di cagna? - Jeli si metteva a correre dietro i
puledri sbrancati, e li spingeva mogio mogio verso la collina. Però davanti agli occhi ci
aveva sempre la sua mamma, col capo avvolto nel fazzoletto bianco, che non parlava più.
Suo padre faceva il vaccaro a Ragoleti di là di Licodia, «dove la
malaria si poteva mietere» dicevano i contadini dei dintorni; ma nei terreni di malaria i
pascoli sono grassi, e le vacche non prendono le febbri. Jeli quindi se ne stava nei campi
tutto l'anno, o a Donferrante, o nelle chiuse della commenda, o nella valle
del Jacitano, e i cacciatori, o i viandanti che prendevano le scorciatoie, lo vedevano
sempre qua e là, come un cane senza padrone. Ei non ci pativa, perché era avvezzo a
stare coi cavalli che gli camminavano dinanzi, passo passo, brucando il trifoglio, e cogli
uccelli che girovagavano a stormi, attorno a lui, tutto il tempo che il sole faceva il suo
viaggio lento lento, sino a che le ombre si allungavano e poi si dileguavano; egli avea il
tempo di veder le nuvole accavallarsi a poco a poco, e figurar monti e vallate; conosceva
come spira il vento quando porta il temporale, e di che colore sia il nuvolo quando sta
per nevicare. Ogni cosa aveva il suo aspetto e il suo significato, e c'era sempre che
vedere e che ascoltare in tutte le ore del giorno. Così, verso il tramonto quando il
pastore si metteva a suonare collo zufolo di sambuco, la cavalla mora si accostava
masticando il trifoglio svogliatamente, e stava anch'essa a guardarlo, con i suoi grandi
occhi pensierosi.
Dove soffriva soltanto un po' di malinconia era nelle lande deserte di Passanitello,
in cui non sorge macchia né arbusto, e ne' mesi caldi non ci vola un uccello. I cavalli
si radunavano in cerchio colla testa ciondoloni, per farsi ombra l'un l'altro, e nei
lunghi giorni della trebbiatura quella gran luce silenziosa pioveva sempre uguale ed afosa
per sedici ore.
Però dove il mangime era abbondante, e i cavalli indugiavano volentieri, il
ragazzo si occupava con qualche altra cosa: faceva delle gabbie di canna per i grilli,
delle pipe intagliate, e dei panierini di giunco, con quattro ramoscelli; sapeva rizzare
un po' di tettoia, quando la tramontana spingeva per la valle le lunghe file dei corvi, o
quando le cicale battevano le ali nel sole che abbruciava le stoppie; arrostiva le ghiande
del querceto nella brace de' sarmenti di sommacco, che pareva di mangiare delle bruciate,
o vi abbrustoliva le larghe fette di pane allorché cominciava ad avere la barba dalla
muffa - poiché quando si trovava a Passanitello nell'inverno, le strade erano
così cattive che alle volte passavano quindici giorni senza che si vedesse passare anima
viva.
Don Alfonso, che era tenuto nel cotone dai suoi genitori, invidiava al suo
amico Jeli la tasca di tela, dove ci aveva tutta la sua roba, il pane, le cipolle, il
fiaschetto del vino, il fazzoletto pel freddo, il batuffoletto dei cenci col refe e gli
aghi rossi, la scatoletta di latta coll'esca e la pietra focaja; gli invidiava pure la
superba cavalla vajata, quella bestia dal ciuffetto di peli irti sulla fronte, che
aveva gli occhi cattivi, e gonfiava le froge al pari di un mastino ringhioso quando
qualcuno voleva montarla.
Da Jeli invece si lasciava montare e grattare le orecchie di cui era gelosa e
l'andava fiutando per ascoltare quello che ei voleva dirle.
- Lascia stare la vajata, - gli raccomandava Jeli, - non è cattiva, ma
non ti conosce -.
Dopo che Scordu il bucchierese si menò via la giumenta calabrese che
aveva comprato a San Giovanni, col patto che gliela tenessero nell'armento sino alla
vendemmia, il puledro zaino, rimasto orfano, non voleva darsi pace, e scorrazzava su pei
greppi del monte, con lunghi nitriti lamentevoli, e colle froge al vento. Jeli gli correva
dietro, chiamandolo con forti grida, e il puledro si fermava ad ascoltare, col collo teso
e le orecchie irrequiete, sferzandosi i fianchi colla coda. - È perché gli hanno portato
via la madre, e non sa più cosa si faccia - osservava il pastore. - Adesso bisogna
tenerlo d'occhio, perché sarebbe capace di lasciarsi andar giù nel precipizio. Anch'io,
quando mi è morta la mia mamma, non ci vedevo più dagli occhi -.
Poi, dopo che il puledro ricominciò a fiutare il trifoglio, e a darvi qualche
boccata di malavoglia, - Vedi, a poco a poco comincia a dimenticarsene.
- Ma anch'esso sarà venduto. I cavalli sono fatti per essere venduti; come
gli agnelli nascono per andare al macello, e le nuvole portano la pioggia. Solo gli
uccelli non hanno a far altro che cantare e volare tutto il giorno -.
Le idee non gli venivano nette e filate l'una dietro l'altra, ché di rado
aveva avuto con chi parlare, e perciò non aveva fretta di scovarle e distrigarle in fondo
alla testa, dove era abituato a lasciare che sbucciassero e spuntassero fuori a poco a
poco, come fanno le gemme dei ramoscelli sotto il sole. - Anche gli uccelli, - soggiunse,
- devono buscarsi il cibo, e quando la neve copre la terra se ne muoiono -.
Poi ci pensò su un pezzetto. - Tu sei come gli uccelli; ma quando arriva
l'inverno, te ne puoi stare al fuoco, senza far nulla -.
Don Alfonso però rispondeva che anche lui andava a scuola, a imparare. Jeli
allora sgranava gli occhi, e stava tutto orecchi se il signorino si metteva a leggere, e
guardava il libro e lui in aria sospettosa, stando ad ascoltare, con quel lieve ammiccar
di palpebre che indica l'intensità dell'attenzione nelle bestie che più si accostano
all'uomo. Gli piacevano i versi che gli accarezzavano l'udito con l'armonia di una canzone
incomprensibile, e alle volte aggrottava le ciglia, appuntava il mento, e sembrava che un
gran lavorìo si stesse facendo nel suo interno; allora accennava di sì e di sì col
capo, con un sorriso furbo, e si grattava la testa. Quando poi il signorino mettevasi a
scrivere per far vedere quante cose sapeva fare, Jeli sarebbe rimasto delle giornate
intiere a guardarlo, e tutto a un tratto lasciava scappare un'occhiata sospettosa. Non
poteva capacitarsi che si potesse poi ripetere sulla carta quelle parole che egli aveva
dette, o che aveva dette don Alfonso, ed anche quelle cose che non gli erano uscite di
bocca, talché lui finiva per tirarsi indietro, incredulo, e con un sorriso furbo.
Ogni idea nuova che gli picchiasse nella testa per entrare, lo metteva in
sospetto, e pareva la fiutasse colla diffidenza selvaggia della sua vajata. Però
non mostrava meraviglia di nulla al mondo: gli avessero detto che in città i cavalli
andavano in carrozza, egli sarebbe rimasto impassibile, con quella maschera d'indifferenza
orientale che è la dignità del contadino siciliano. Pareva che istintivamente si
trincerasse nella sua ignoranza, come fosse la forza della povertà. Tutte le volte che
rimaneva a corto di argomenti ripeteva: - Io non ne so nulla. - Io sono povero - con quel
sorriso ostinato che voleva essere malizioso.
Aveva chiesto al suo amico Alfonso di scrivergli il nome di Mara su di un
pezzetto di carta che aveva trovato chi sa dove, perché egli raccattava tutto quello che
vedeva per terra, e se l'era messo nel batuffoletto dei cenci. Un giorno, dopo di esser
stato un po' zitto, a guardare di qua e di là soprappensiero, gli disse serio serio:
- Io ci ho l'innamorata -.
Alfonso, malgrado che sapesse leggere, sgranava gli occhi. - Sì, - ripeté
Jeli, - Mara, la figlia di massaro Agrippino che era qui; ed ora sta a Marineo, in
quel gran casamento della pianura che si vede dal piano del lettighiere, lassù.
- O ti mariti dunque?
- Sì, quando sarò grande e avrò sei onze all'anno di salario. Mara non ne
sa nulla ancora.
- Perché non gliel'hai detto? -
Jeli tentennò il capo, e si mise a riflettere. Poi svolse il batuffoletto e
spiegò la carta che s'era fatta scrivere.
- È proprio vero che dice Mara; l'ha letto pure don Gesualdo, il
campiere, e fra Cola, quando venne giù per la cerca delle fave.
- Uno che sappia scrivere, - osservò poi, - è come uno che serbasse le
parole nella scatola dell'acciarino, e potesse portarsele in tasca, ed anche mandarle di
qua e di là.
- Ora che ne farai di quel pezzetto di carta, tu che non sai leggere? - gli
domandò Alfonso.
Jeli si strinse nelle spalle, ma continuò ad avvolgere accuratamente il suo
fogliolino scritto nel batuffoletto dei cenci.
La Mara l'aveva conosciuta da bambina, che avevano cominciato dal picchiarsi
ben bene, una volta che s'erano incontrati lungo il vallone, a cogliere le more nelle
siepi di rovo. La ragazzina, la quale sapeva di essere «nel fatto suo», aveva agguantato
pel collo Jeli, come un ladro. Per un po' s'erano scambiati dei pugni nella schiena, uno
tu ed uno io, come fa il bottaio sui cerchi delle botti, ma quando furono stanchi andarono
calmandosi a poco a poco, tenendosi sempre acciuffati.
- Tu chi sei? - gli domandò Mara.
E come Jeli, più selvatico, non diceva chi fosse:
- Io sono Mara, la figlia di massaro Agrippino, che è il campaio di tutti
questi campi qui -.
Jeli allora lasciò la presa senza dir nulla, e la ragazzina si mise a
raccattare le more che le erano cadute per terra, sbirciando di tanto il tanto il suo
avversario con curiosità.
- Di là del ponticello, nella siepe dell'orto, ci son tante more grosse; -
aggiunse la piccina, - e se le mangiano le galline -.
Jeli intanto si allontanava quatto quatto, e Mara, dopo che stette ad
accompagnarlo cogli occhi finché poté vederlo nel querceto, volse le spalle anche lei, e
se la diede a gambe verso casa.
Ma da quel giorno in poi cominciarono ad addomesticarsi. Mara andava a filare
la stoppa sul parapetto del ponticello, e Jeli adagio adagio spingeva l'armento verso le
falde del poggio del bandito. Da prima se ne stava in disparte ronzandole attorno,
guardandola da lontano in aria sospettosa, e a poco a poco andava accostandosi
coll'andatura guardinga del cane avvezzo alle sassate. Quando finalmente si trovavano
accanto, ci stavano delle lunghe ore senza aprir bocca. Jeli osservando attentamente
l'intricato lavorio della calza che la mamma aveva dato in compito alla Mara, oppure
costei gli vedeva intagliare i bei zig zag sui bastoni del mandorlo. Poi se ne andavano
l'uno di qua e l'altro di là, senza dirsi una parola, e la bambina, com'era in vista
della casa, si metteva a correre, facendo levar alta la sottanella sulle gambette rosse.
Al tempo dei fichidindia poi si fissarono nel folto delle macchie, sbucciando
dei fichi tutto il santo giorno. Vagabondavano insieme sotto i noci secolari, e Jeli
bacchiava tante delle noci, che piovevano fitte come la gragnuola; la ragazzina si
affaticava a raccattarne con grida di giubilo più che ne poteva, e poi scappava via,
lesta lesta, tenendo tese le due cocche del grembiule, dondolandosi come una vecchietta.
Durante l'inverno Mara non osò mettere fuori il naso, in quel gran freddo.
Alle volte, verso sera, si vedeva il fumo dei fuocherelli di sommacchi che Jeli andava
facendo nel piano del lettighiere, o sul poggio di Macca, per non rimanere
intirizzito al pari di quelle cinciallegre che la mattina trovava dietro un sasso, o al
riparo di una zolla. Anche i cavalli ci trovavano piacere a ciondolare un po' la coda
attorno al fuoco, e si stringevano fra di loro per star più caldi.
Col marzo tornarono le allodole nel piano, i passeri sul tetto, le foglie e i
nidi nelle siepi, Mara riprese ad andare a spasso, in compagnia di Jeli, nell'erba
soffice, tra le macchie in fiore, sotto gli alberi ancora nudi che cominciavano a
punteggiarsi di verde. Jeli si ficcava negli spineti come un segugio, per andare a scovare
delle nidiate di merli che guardavano sbalorditi coi loro occhietti di pepe; i due
fanciulli portavano spesso nel petto della camicia dei piccoli conigli allora stanati,
quasi nudi, ma dalle lunghe orecchie diggià inquiete; scorazzavano pei campi al seguito
del branco dei cavalli, entrando nelle stoppie dietro i mietitori, passo passo
coll'armento, fermandosi ogni volta che una giumenta si fermava a strappare una boccata
d'erba. La sera, giunti al ponticello, se ne andavano l'una di qua e l'altro di là, senza
dirsi addio.
Così passarono tutta l'estate. Intanto il sole cominciava a tramontare dietro
il poggio alla croce, e i pettirossi gli andavano dietro verso la montagna, come
imbruniva, seguendolo fra le macchie dei fichidindia. I grilli e le cicale non si udivano
più, e in quell'ora per l'aria si spandeva come una gran malinconia.
In quel tempo arrivò al casolare di Jeli suo padre, il vaccaro, che aveva
preso la malaria a Ragoleti, e non poteva nemmen reggersi sull'asino che lo
portava. Jeli accese il fuoco, lesto lesto, e corse «alle case» per cercargli qualche
uovo di gallina. - Piuttosto stendi un po' di strame vicino al fuoco, - gli disse suo
padre, - ché mi sento tornare la febbre -.
Il ribrezzo della febbre era così forte che compare Menu, seppellito sotto il
suo gran tabarro, la bisaccia dell'asino, e la sacca di Jeli, tremava come fanno le foglie
in novembre, davanti alla gran vampa di sarmenti che gli faceva il viso bianco bianco come
un morto. I contadini della fattoria venivano a domandargli: - Come vi sentite, compare
Menu? - Il poveretto non rispondeva altro che con un guaito, come fa un cagnuolo di latte.
- È malaria di quella che ammazza meglio di una schioppettata - dicevano gli amici,
scaldandosi le mani al fuoco.
Fu chiamato anche il medico, ma erano tutti denari sprecati, perché la
malattia era di quelle chiare e conosciute che anche un ragazzo saprebbe curarla, e se la
febbre non era di quelle che ammazzano ad ogni modo, col solfato si sarebbe guarita
subito. Compare Menu ci spese gli occhi della testa in tanto solfato, ma era come buttarlo
nel pozzo. - Prendete un buon decotto di ecalibbiso che non costa nulla, -
suggeriva mastro Agrippino, - e se non serve a nulla come il solfato, almeno non vi
rovinate a spendere -. Si prendeva anche il decotto di eucaliptus, eppure la febbre
tornava sempre, anche più forte. Jeli assisteva il genitore come meglio sapeva. Ogni
mattina, prima d'andarsene coi puledri, gli lasciava il decotto preparato nella ciotola,
il fascio di sarmenti sotto la mano, le uova nella cenere calda, e tornava presto alla
sera, colle altre legne per la notte, e il fiaschetto di vino, e qualche pezzetto di carne
di montone che era corso a comperare sino a Licodia. Il povero ragazzo faceva ogni cosa
con garbo, come una brava massaia, e suo padre, accompagnandolo cogli occhi stanchi nelle
sue faccenduole qua e là pel casolare, di tanto in tanto sorrideva, pensando che il
ragazzo avrebbe saputo aiutarsi, quando fosse rimasto solo.
I giorni in cui la febbre cessava per qualche ora, compare Menu si alzava
tutto stravolto e col capo stretto nel fazzoletto, e si metteva sull'uscio ad aspettare
Jeli, mentre il sole era ancora caldo. Come Jeli lasciava cadere accanto all'uscio il
fascio della legna, e posava sulla tavola il fiasco e le uova, ei gli diceva: - Metti a
bollire l'ecalibbiso per stanotte -; oppure; - Guarda che l'oro di tua madre l'ha
in consegna la zia Agata, quando non ci sarò più io -. E Jeli diceva di sì col capo.
- È inutile - ripeteva massaro Agrippino ogni volta che tornava a vedere
compare Menu colla febbre. - Il sangue oramai è tutto una peste -. Compare Menu ascoltava
senza batter palpebra, col viso più bianco della sua berretta.
Diggià non si alzava più. Jeli si metteva a piangere quando non gli
bastavano le forze per aiutarlo a voltarsi da un lato all'altro; poco per volta compare
Menu finì per non parlare nemmen più. Le ultime parole che disse al suo ragazzo furono:
- Quando sarò morto, andrai dal padrone delle vacche, a Ragoleti, e ti
farai dare le tre onze e i dodici tumoli di frumento che avanzo da maggio a questa parte.
- No, - rispose Jeli, - sono soltanto due onze e quindici, perché avete
lasciato le vacche che è più di un mese, e bisogna fare il conto giusto col padrone.
- È vero! - affermò compare Menu socchiudendo gli occhi.
- Ora son proprio solo al mondo come un puledro smarrito, che se lo possono
mangiare i lupi! - pensò Jeli quando gli ebbero portato il babbo al cimitero di Licodia.
Mara era venuta a vedere anche lei la casa del morto, colla curiosità
inquieta che destano le cose spaventose.
- Vedi come son rimasto? - le disse Jeli.
La ragazzetta si tirò indietro sbigottita, per paura che non la facesse
entrare nella casa dove era stato il morto.
Jeli andò a riscuotere il danaro del babbo, e se ne partì coll'armento per Passanitello,
dove l'erba era già alta sul terreno lasciato pel maggese, e il mangime era abbondante;
perciò i puledri vi restarono a pascolarvi per molto tempo. Frattanto Jeli s'era fatto
grande, ed anche Mara doveva esser cresciuta, pensava egli sovente, mentre suonava il suo
zufolo; poi quando tornò a Tebidi, dopo tanto tempo, spingendosi innanzi adagio
adagio le giumente per i viottoli sdrucciolevoli della fontana dello zio Cosimo,
andava cercando cogli occhi il ponticello del vallone, e il casolare nella valle del
Jacitano, e il tetto delle case grandi, su cui svolazzavano sempre i colombi.
Ma in quel tempo il padrone aveva licenziato massaro Agrippino e tutta la famiglia di Mara
stava soleggiando. Jeli trovò la ragazza, la quale s'era fatta grandicella e belloccia,
alla porta del cortile, che teneva d'occhio la sua roba, mentre la caricavano sulla
carretta. Ora la stanza vuota sembrava più scura e affumicata del solito. La tavola, e il
letto, e il cassettone, e le immagini della Vergine e di San Giovanni, e fino i chiodi per
appendervi le zucche delle sementi, ci avevano lasciato il segno sulle pareti dove erano
state per tanti anni. - Andiamo via, - gli disse Mara come lo vide osservare. - Ce ne
andiamo laggiù a Marineo, dove c'è quel gran casamento, nella pianura -.
Jeli si diede ad aiutare massaro Agrippino e la gnà Lia nel caricare la
carretta, e allorché non ci fu altro da portare via dalla stanza, andò a sedere con Mara
sul parapetto dell'abbeveratojo. - Anche le case, - le disse, quand'ebbe visto accatastare
l'ultima cesta sulla carretta, - anche le case, come se ne toglie via la loro roba, non
sembrono più quelle.
- A Marineo, - rispose Mara, - ci avremo una camera più bella, ha
detto la mamma, e grande come il magazzino dei formaggi.
- Ora che tu sarai via, non voglio venirci più qui; ché mi parrà di esser
tornato l'inverno, a veder quell'uscio chiuso.
- A Marineo invece troveremo dell'altra gente, Pudda la rossa, e
la figlia del campiere; si starà allegri, per la messe verranno più di ottanta
mietitori, colla cornamusa, e si ballerà sull'aja -.
Massaro Agrippino e sua moglie si erano avviati colla carretta, Mara correva
loro dietro tutta allegra, portando il paniere coi piccioni. Jeli volle accompagnarla sino
al ponticello, e quando Mara stava per scomparire nella vallata la chiamò: - Mara! oh,
Mara!
- Che vuoi? - disse Mara.
Egli non lo sapeva che voleva. - O tu, cosa farai qui tutto solo? - gli
domandò allora la ragazza.
- Io resto coi puledri -.
Mara se ne andò saltellando, e lui rimase lì fermo, finché poté udire il
rumore della carretta che rimbalzava sui sassi. Il sole toccava le rocce alte del poggio
alla croce, le chiome grigie degli ulivi sfumavano nel crepuscolo, e per la campagna
vasta, lontan lontano, non si udiva altro che il campanaccio della bianca nel
silenzio che si allargava.
Mara, come se ne fu andata a Marineo, in mezzo alla gente nuova, e alle
faccende della vendemmia, si scordò di lui; ma Jeli ci pensava sempre a lei, perché non
aveva altro da fare, nelle lunghe giornate che passava a guardare la coda delle sue
bestie. Adesso non aveva poi motivo alcuno per calar nella valle, di là del ponticello, e
nessuno lo vedeva più alla fattoria. In tal modo ignorò per un pezzo che Mara si era
fatta sposa, giacché dell'acqua intanto ne era passata e passata sotto il ponticello.
Egli rivide soltanto la ragazza il dì della festa di San Giovanni, come andò alla fiera
coi puledri da vendere: una festa che gli si mutò tutta in veleno, e gli fece cascar il
pan di bocca, per un accidente toccato ad uno dei puledri del padrone, Dio ne scampi.
Il giorno della fiera il fattore aspettava i puledri sin dall'alba, andando su
e giù cogli stivali inverniciati dietro le groppe dei cavalli e dei muli, messi in fila
di qua e di là dello stradone. La fiera era già sul finire, né Jeli spuntava ancora
colle bestie, di là del gomito che faceva lo stradone. Sulle pendici riarse del calvario
e del mulino a vento, rimaneva tuttora qualche branco di pecore, strette in cerchio
col muso a terra e l'occhio spento, e qualche pariglia di buoi dal pelo lungo, di quegli
che si vendono per pagare il fitto delle terre, che aspettavano immobili, sotto il sole
cocente. Laggiù, verso la valle, la campana di San Giovanni suonava la messa grande,
accompagnata dal lungo crepitìo dei mortaletti. Allora il campo della fiera sembrava
trasalire, e correva un gridìo che si prolungava fra le tende dei trecconi schierate
nella salita dei Galli, scendeva per le vie del paese, e sembrava ritornare dalla
valle dov'era la chiesa. - Viva San Giovanni! - Santo diavolone! - strillava il fattore, -
quell'assassino di Jeli mi farà perdere la fiera! -
Le pecore levavano il muso attonito, e si mettevano a belare tutte in una
volta, e anche i buoi facevano qualche passo lentamente, guardando in giro, con grandi
occhi intenti.
Il fattore era così in collera perché quel giorno dovevasi pagare il fitto
delle chiuse grandi, «come San Giovanni fosse arrivato sotto l'olmo», diceva il
contratto, e a completare la somma si era fatto assegnamento sulla vendita dei puledri.
Intanto di puledri, e cavalli, e muli, ce n'erano quanti il Signore ne aveva fatti, tutti
strigliati e lucenti, e ornati di fiocchi, e nappine, e sonagli, che scodinzolavano per
scacciare la noia, e voltavano la testa verso ognuno che passava, come aspettassero
un'anima caritatevole che volesse comprarli.
- Si sarà messo a dormire, quell'assassino! - seguita a gridare il fattore; -
e mi lascia i puledri sulla pancia! -
Invece Jeli aveva camminato tutta la notte, acciocché i puledri arrivassero
freschi alla fiera, e prendessero un buon posto nell'arrivare, ed era giunto al piano
del corvo che ancora i tre re non erano tramontati, e luccicavano sul monte
Arturo, colle braccia in croce. Per la strada passavano continuamente carri, e gente a
cavallo, che andavano alla festa; per questo il giovanetto teneva ben aperti gli occhi,
acciò i puledri, spaventati dall'insolito via vai, non si sbandassero, ma andassero uniti
lungo il ciglione della strada, dietro la bianca che camminava diritta e
tranquilla, col campanaccio al collo. Di tanto in tanto, allorché la strada correva sulla
sommità delle colline, si udiva sin lassù la campana di San Giovanni, che anche nel bujo
e nel silenzio della campagna arrivava la festa, e per tutto lo stradone, lontan lontano,
sin dove c'era gente a piedi o a cavallo che andava a Vizzini, si udiva gridare: - Viva
San Giovanni! - e i razzi salivano diritti e lucenti dietro i monti della Canziria,
come le stelle che piovono in agosto.
- È come la notte di Natale! - andava dicendo Jeli al ragazzo che l'aiutava a
condurre il branco, - che in ogni fattoria si fa festa e luminaria, e per tutta la
campagna si vedono qua e là dei fuochi -.
Il ragazzo sonnecchiava, spingendo adagio adagio una gamba dietro l'altra, e
non rispondeva nulla; ma Jeli che si sentiva rimescolare tutto il sangue da quella
campana, non poteva star zitto, come se ognuno di quei razzi che strisciavano sul bujo
taciti e lucenti dietro il monte gli sbocciassero dall'anima.
- Mara sarà andata anche lei alla festa di San Giovanni, - diceva, - perché
ci va tutti gli anni -.
E senza curarsi che Alfio, il ragazzo, non rispondesse nulla:
- Tu non sai? ora Mara è alta così, che è più grande di sua madre che l'ha
fatta, e quando l'ho rivista non mi pareva vero che fosse proprio quella stessa con cui si
andava a cogliere i fichidindia, e a bacchiare le noci -.
E si mise a cantare ad alta voce tutte le canzoni che sapeva.
- O Alfio, che dormi? - gli gridò quando ebbe finito. - Bada che la bianca
ti vien sempre dietro, bada!
- No, non dormo! - rispose Alfio con voce rauca.
- La vedi la puddara, che sta ad ammiccarci lassù, verso Granvilla,
come sparassero dei razzi anche a Santa Domenica? Poco può passare a romper
l'alba; pure alla fiera arriveremo in tempo per trovare un buon posto. Ehi, morellino
bello! che ci avrai la cavezza nuova, colle nappine rosse, per la fiera! e anche tu, stellato!
Così andava parlando all'uno e all'altro dei puledri, perché si
rinfrancassero sentendo la sua voce al bujo. Ma gli doleva che lo stellato e il morellino
andassero alla fiera per esser venduti.
- Quando saran venduti, se ne andranno col padrone nuovo, e non si vedranno
più nella mandria, com'è stato di Mara, dopo che se ne fu andata a Marineo.
- Suo padre sta benone laggiù a Marineo; ché quando andai a trovarli
mi misero dinanzi pane, vino, formaggio, e ogni ben di Dio, perché egli è quasi il
fattore, ed ha le chiavi di ogni cosa, e avrei potuto mangiarmi tutta la fattoria, se
avessi voluto. Mara non mi conosceva quasi più da tanto che non mi vedeva! e si mise a
gridare: «Oh! guarda! è Jeli, il guardiano dei cavalli, quello di Tebidi!». Gli
è come quando uno torna da lontano, che al vedere soltanto il cocuzzolo di un monte, gli
basta a riconoscere subito il paese dove è cresciuto. La gnà Lia non voleva che le dessi
più del tu, alla Mara, ora che sua figlia si è fatta grande, perché la gente che non sa
nulla, chiacchiera facilmente. Mara invece rideva, e sembrava che avesse infornato il pane
allora allora, tanto era rossa; apparecchiava la tavola, e spiegava la tovaglia che non
pareva più quella. «O che ti rammenti più di Tebidi?» le chiesi appena la gnà
Lia fu sortita per spillare del vino fresco dalla botte. «Sì, sì, me ne rammento», mi
disse ella «a Tebidi c'era la campana, col campanile che pareva un manico di
saliera, e si suonava dal ballatoio, e c'erano pure due gatti di sasso, che facevano le
fusa sul cancello del giardino». Io me le sentivo qui dentro tutte quelle cose, come ella
andava dicendole. Mara mi guardava da capo a piedi con tanto d'occhi, e tornava a dire:
«Come ti sei fatto grande!» e si mise pure a ridere, e mi diede uno scapaccione qui,
sulla testa -.
In tal modo Jeli, il guardiano dei cavalli, perdette il pane, perché giusto
in quel punto sopravveniva all'improvviso una carrozza che non si era udita prima, mentre
saliva l'erta passo passo, e si era messa al trotto com'era giunta al piano, con gran
strepito di frusta e di sonagli, quasi la portasse il diavolo. I puledri, spaventati, si
sbandarono in un lampo, che pareva un terremoto, e ce ne vollero delle chiamate, e delle
grida e degli ohi! ohi! ohi! di Jeli e del ragazzo prima di raccoglierli attorno alla bianca,
la quale anch'essa trotterellava svogliatamente, col campanaccio al collo. Appena Jeli
ebbe contato le sue bestie, si accorse che mancava lo stellato, e si cacciò le
mani nei capelli, perché in quel posto la strada correva lungo il burrone, e fu nel
burrone che lo stellato si fracassò le reni, un puledro che valeva dodici onze
come dodici angeli del paradiso! Piangendo e gridando Jeli andava chiamando il puledro -
ahu! ahu! ahu! - che non ci si vedeva ancora. Lo stellato rispose finalmente dal
fondo del burrone, con un nitrito doloroso, come avesse avuto la parola, povera bestia!
- Oh! mamma mia! - andavano gridando Jeli e il ragazzo. - Oh! che disgrazia,
mamma mia! -
I viandanti che andavano alla festa, e sentivano piangere a quel modo in mezzo
al buio, domandavano cosa avessero perso, e poi, come sapevano di che si trattava,
andavano per la loro strada.
Lo stellato rimaneva immobile dove era caduto, colle zampe in aria, e
mentre Jeli l'andava tastando per ogni dove, piangendo e parlandogli quasi avesse potuto
farsi intendere, la povera bestia rizzava il collo penosamente, e voltava la testa verso
di lui, che si udiva l'anelito rotto dallo spasimo.
- Qualche cosa si sarà rotto! - piagnucolava Jeli, disperato di non poter
vedere nulla pel buio; e il puledro inerte come un sasso lasciava ricadere il capo di
peso. Alfio rimasto sulla strada a custodia del branco, s'era rasserenato per il primo, e
aveva tirato fuori il pane dalla sacca. Ora il cielo s'era fatto bianchiccio, e i monti
tutto intorno parevano che spuntassero ad uno ad uno, neri ed alti. Dalla svolta dello
stradone si cominciava a scorgere il paese, col monte del calvario e del mulino
a vento stampato sull'albore, ancora foschi, seminati dalle chiazze bianche delle
pecore, e come i buoi che pascolavano sul cocuzzolo del monte, nell'azzurro, andavano di
qua e di là, sembrava che il profilo del monte stesso si animasse e formicolasse di vita.
La campana, dal fondo del burrone, non si udiva più, i viandanti si erano fatti più
rari, e quei pochi che passavano avevano fretta di arrivare alla fiera. Il povero Jeli non
sapeva a qual santo votarsi in quella solitudine: lo stesso Alfio, da solo, non poteva
giovargli per niente; perciò costui andava sbocconcellando pian piano il suo pezzo di
pane.
Finalmente si vede venire a cavallo il fattore, il quale da lontano stripitava
e bestemmiava accorrendo, al vedere gli animali fermi sulla strada, sicché lo stesso
Alfio se la diede a gambe per la collina. Ma Jeli non si mosse d'accanto allo stellato.
Il fattore lasciò la mula sulla strada, e scese nel burrone anche lui, cercando di
aiutare il puledro ad alzarsi, e tirandolo per la coda. - Lasciatelo stare! - diceva Jeli,
bianco in viso come se si fosse fracassate le reni lui. - Lasciatelo stare! Non vedete che
non si può muovere, povera bestia? -
Lo stellato infatti ad ogni movimento, e ad ogni sforzo che gli
facevano fare, metteva un rantolo che pareva un cristiano. Il fattore si sfogava a calci e
scapaccioni su di Jeli, e tirava pei piedi gli angeli e i santi del paradiso. Allora Alfio
più rassicurato era tornato sulla strada, per non lasciare le bestie senza custodia, e
badava a scolparsi dicendo:
- Io non ci ho colpa. Io andavo innanzi colla bianca.
- Qui non c'è più nulla da fare, - disse alfine il fattore, dopo che si
persuase che era tutto tempo perso. - Qui non se ne può prendere altro che la pelle,
finch'è buona -.
Jeli si mise a tremare come una foglia, quando vide il fattore andare a
staccare lo schioppo dal basto della mula. - Levati di lì, paneperso! - gli urlò il
fattore, - che non so chi mi tenga dallo stenderti per terra accanto a quel puledro che
valeva assai più di te, con tutto il battesimo porco che ti diede quel prete ladro! -
Lo stellato, non potendosi muovere, volgeva il capo con grandi occhi
sbarrati, quasi avesse inteso ogni cosa, e il pelo gli si arricciava ad onde, lungo le
costole; sembrava ci corresse sotto un brivido. In tal modo il fattore uccise sul luogo lo
stellato, per cavarne almeno la pelle, e il rumore fiacco che fece dentro le carni
vive il colpo tirato a bruciapelo parve a Jeli di sentirselo dentro di sé.
- Ora, se vuoi sapere il mio consiglio, - gli lasciò detto il fattore, -
cerca di non farti vedere più dal padrone per quel salario che avanzi, perché te lo
pagherebbe salato assai! -
Il fattore se ne andò insieme ad Alfio, cogli altri puledri che non si
voltavano nemmeno a vedere dove rimanesse lo stellato, e andavano strappando l'erba
dal ciglione. E lo stellato rimase solo nel burrone, aspettando che venissero a
scuoiarlo, cogli occhi ancora spalancati, e le quattro zampe distese, beato lui, che non
penava più infine.
Jeli, ora che aveva visto con qual ceffo il fattore aveva preso di mira il
puledro e tirato il colpo, mentre la povera bestia volgeva la testa penosamente, quasi
avesse il giudizio, smise di piangere, e se ne stette a guardare lo stellato, duro
duro, seduto sul sasso, fin quando arrivarono gli uomini che dovevano prendersi la pelle.
Adesso poteva andarsene a spasso, a godersi la festa, o starsene in piazza
tutto il giorno, a vedere i galantuomini nel casino, come meglio gli piaceva, ché non
aveva più né pane, né tetto, e bisognava cercarsi un padrone, se pure qualcuno lo
voleva, dopo la disgrazia dello stellato.
Le cose del mondo vanno così: mentre Jeli andava cercando un padrone, colla
sacca ad armacollo e il bastone in mano, la banda suonava in piazza allegramente, coi
pennacchi sul cappello, in mezzo a una folla di berrette bianche fitte come le mosche, e i
galantuomini stavano a godersela seduti nel casino. Tutta la gente era vestita da festa,
come gli animali della fiera, e in un canto della piazza c'era una donna colla gonnella
corta e le calze color di carne che pareva colle gambe nude, e picchiava sulla gran cassa,
davanti a un gran lenzuolo dipinto, dove si vedeva una carneficina di cristiani, col
sangue che colava a fiumi, e nella folla che stava a guardare a bocca aperta c'era pure
massaro Cola, il quale conosceva Jeli da quando stava a Passanitello, e gli disse
che il padrone glielo avrebbe trovato lui, poiché compare Isidoro Macca cercava un
guardiano per i porci. - Però non dir nulla dello stellato, - gli raccomandò
massaro Cola. - Una disgrazia come quella può accadere a tutti, nel mondo, ma è meglio
non parlarne -.
Andarono perciò a cercare compare Macca, il quale era al ballo, e nel tempo
che massaro Cola entrò a fare l'ambasciata, Jeli aspettò sulla strada, in mezzo alla
folla che stava a guardare dalla porta della bottega. Nella stanzaccia c'era un mondo di
gente, che saltava e si divertiva, tutti rossi e scalmanati, e facevano un gran pestare di
scarponi sull'ammattonato, che non si udiva nemmeno il ron-ron del contrabasso, e
appena finiva una suonata, che costava un grano, levavano il dito per far segno che ne
volevano un'altra; e quello del contrabasso faceva una croce col carbone sulla parete, per
memoria, e cominciava da capo. - Questi li spendono senza pensarci, - s'andava dicendo
Jeli, - e vuol dire che hanno la tasca piena, e non sono in angustia come me, per difetto
di un padrone, se sudano e s'affannano a saltare per loro piacere, quasi fossero presi a
giornata! - Massaro Cola tornò dicendo che compare Macca non aveva bisogno di nulla.
Allora Jeli volse le spalle e se ne andò mogio mogio.
Ma stava di casa verso Sant'Antonio, dove le case s'arrampicano sul monte, di
fronte al vallone della Canziria, tutto verde di fichidindia, e colle ruote dei
mulini che spumeggiavano in fondo, nel torrente; ma Jeli non ebbe il coraggio di andare da
quelle parti, ora che non l'avevano voluto nemmeno per guardare i porci e girandolando in
mezzo alla folla che lo urtava e lo spingeva senza curarsi di lui, gli pareva di essere
più solo di quando era coi puledri nelle lande di Passanitello, e si sentiva
voglia di piangere. Finalmente massaro Agrippino lo incontrò nella piazza, che andava di
qua e di là colle braccia ciondoloni, godendosi la festa, e cominciò a gridargli dietro:
- Oh Jeli! oh! - e se lo menò a casa. Mara era in gran gala, con tanto d'orecchini che le
sbattevano sulle guance, e stava sull'uscio, colle mani sulla pancia, cariche d'anelli, ad
aspettare che imbrunisse per andare a vedere i fuochi. - Oh! - gli disse Mara, - sei
venuto anche tu per la festa di San Giovanni! -
Jeli veramente non osava entrare, perché era vestito male; però massaro
Agrippino lo spinse per le spalle, dicendogli che non si vedevano allora per la prima
volta, e che si sapeva che era venuto per la fiera coi puledri del padrone. La gnà Lia
gli versò un bel bicchiere di vino, e vollero condurlo con loro a veder la luminaria,
insieme alle comari ed ai vicini.
Arrivando in piazza, Jeli rimase a bocca aperta dalla meraviglia: tutta quanta
era un mare di fuoco, come quando s'incendiano le stoppie, per il gran numero di razzi che
i devoti accendevano in cospetto del santo, il quale stava a goderseli dall'imboccatura
del Rosario, tutto nero sotto il baldacchino d'argento. I devoti andavano e venivano fra
le fiamme come tanti diavoli, e c'era persino una donna discinta, spettinata, cogli occhi
fuori della testa, che accendeva i razzi anch'essa, e un prete colla sottana in aria,
senza cappello, che pareva un ossesso dalla devozione.
- Quello lì è il figliuolo di massaro Neri, il fattore della Salonia,
e spende più di dieci lire di razzi! - diceva la gnà Lia, accennando a un giovinotto che
andava in giro per la piazza tenendo due razzi alla volta nelle mani, come due candele,
sicché tutte le donne se lo mangiavano cogli occhi, e gli gridavano: - Viva San Giovanni.
- Suo padre è ricco e possiede più di venti capi di bestiame, - aggiunse
massaro Agrippino.
Mara sapeva pure che aveva portato lo stendardo grande nella processione, e lo
reggeva diritto come un fuso, tanto era forte e bel giovane.
Il figlio di massaro Neri pareva che sentisse quei discorsi, e accendesse i
razzi per la Mara, facendo la ruota dinanzi a lei; tanto che dopo i fuochi si accompagnò
con loro, e li condusse al ballo, e al cosmorama, dove si vedeva il mondo vecchio e il
mondo nuovo, pagando lui, beninteso, anche per Jeli, il quale andava dietro la comitiva
come un cane senza padrone, a veder ballare il figlio di massaro Neri colla Mara, la quale
girava in tondo e si accoccolava come una colombella in amore, e teneva tesa con bel garbo
una cocca del grembiale. Il figlio di massaro Neri, lui, saltava come un puledro, tanto
che la gnà Lia piangeva dalla consolazione, e massaro Agrippino faceva cenno di sì col
capo, che la cosa andava bene.
Infine, quando furono stanchi, se ne andarono di qua e di là nel passeggio,
trascinati dalla folla quasi fossero in mezzo a una fiumana, a vedere i trasparenti
illuminati, dove tagliavano il collo a San Giovanni, che avrebbe fatto pietà agli stessi
turchi, e il santo sgambettava come un capriuolo sotto la mannaia. Lì vicino c'era la
banda che suonava, sotto un gran paracqua di legno tutto illuminato, e nella piazza una
folla tanto stipata che mai s'erano visti tanti cristiani a una fiera.
Mara andava al braccio del figlio di massaro Neri come una signorina, e gli
parlava nell'occhio, e rideva che pareva si divertisse assai. Jeli non ne poteva più
dalla stanchezza, e si mise a dormire seduto sul marciapiede, fin quando lo svegliarono i
primi petardi del fuoco d'artifizio. In quel momento Mara era sempre al fianco del figlio
di massaro Neri, gli si appoggiava colle due mani intrecciate sulla spalla, e al lume dei
fuochi colorati sembrava ora tutta bianca ed ora tutta rossa. Quando scapparono pel cielo
gli ultimi razzi in mucchio, il figlio di massaro Neri, si voltò verso di lei, bianca in
viso, e le diede un bacio.
Jeli non disse nulla, ma in quel punto gli si cambiò in veleno tutta la festa
che aveva goduto sin allora, e tornò a pensare a tutte le sue disgrazie, che gli erano
uscite di mente - e che era rimasto senza padrone, e che non sapeva più che fare né dove
andare, e che non aveva più né pane né tetto, - insomma che era meglio andare a
buttarsi nel burrone, come lo stellato, che se lo mangiavano i cani a quell'ora.
Intanto attorno a lui la gente era allegra. Mara colle compagne saltava, e
cantava per la stradicciuola sassosa, mentre tornavano a casa.
- Buona notte! Buona notte! - andavano dicendo le compagne, a misura che si
lasciavano per la strada.
Mara dava la buona notte, che pareva che cantasse, tanta contentezza ci aveva
nella voce, e il figlio di massaro Neri poi sembrava proprio imbestialito e non volesse
lasciarla più, mentre massaro Agrippino e la gnà Lia litigavano nell'aprire l'uscio di
casa. Nessuno badava a Jeli, soltanto massaro Agrippino si rammentò di lui, e gli chiese:
- Ed ora dove andrai?
- Non lo so, - disse Jeli.
- Domani vieni a trovarmi, e t'aiuterò a cercar d'allogarti. Per stanotte
torna in piazza dove siamo stati a sentir suonare la banda; un posto su qualche panchetta
lo troverai, e a dormire allo scoperto tu devi esserci avvezzo -.
Sì che c'era avvezzo, ma quello che gli dava maggior pena era che Mara non
gli dicesse nulla, e lo lasciasse a quel modo sull'uscio come un pezzente; tanto che
glielo disse, il giorno dopo, appena poté trovarla in casa un momento sola:
- Oh, gnà Mara! come li scordate gli amici!
- Oh, sei tu Jeli? - disse Mara. - No, io non ti ho scordato. Ma ero così
stanca dopo i fuochi!
- Gli volete bene almeno, al figlio di massaro Neri? - chiese lui voltando e
rivoltando il bastone fra le mani.
- Che discorsi andate facendo! - rispose bruscamente la gnà Mara. - Mia madre
è di là che sente tutto -.
Massaro Agrippino gli trovò da allogarlo come pecoraio alla Salonia,
dov'era fattore massaro Neri, ma siccome Jeli era poco pratico del mestiere si dovette
contentare di un salario assai magro.
Adesso badava alle sue pecore, e ad imparare come si fa il formaggio, e la
ricotta, e il caciocavallo, e ogni altro frutto di mandra; ma fra le chiacchiere che
correvano alla sera nel cortile tra gli altri pastori e contadini, mentre le donne
sbucciavano le fave della minestra, se si veniva a parlare del figlio di massaro Neri, il
quale si prendeva in moglie Mara di massaro Agrippino, Jeli non diceva più nulla, e
nemmeno osava di aprir bocca. Una volta che il campaio lo motteggiò, dicendogli che Mara
non aveva voluto saperne più di lui, dopo che tutti avevano detto che sarebbero stati
marito e moglie, Jeli che badava alla pentola in cui bolliva il latte, rispose facendo
sciogliere il caglio adagio adagio:
- Ora Mara si è fatta più bella col crescere, che sembra una signora -.
Però siccome egli era paziente e laborioso, imparò presto ogni cosa del
mestiere meglio di uno che ci fosse nato, e siccome era avvezzo a star colle bestie, amava
le sue pecore come se le avesse fatte lui, e quindi il male alla Salonia non
faceva tanta strage, e la mandra prosperava ch'era un piacere per massaro Neri, tutte le
volte che veniva alla fattoria, tanto che ad anno nuovo si persuase ad indurre il padrone
perché aumentasse il salario di Jeli, sicché costui venne ad avere quasi quello che
prendeva col fare il guardiano dei cavalli. Ed erano danari bene spesi, ché Jeli non
badava a contar le miglia e le miglia per cercare i migliori pascoli ai suoi animali, e se
le pecore figliavano o erano malate se le portava a pascolare dentro le bisacce
dell'asinello, e si recava in collo gli agnelli che gli belavano sulla faccia, col muso
fuori del sacco, e gli poppavano le orecchie. Nella nevigata famosa della notte di Santa
Lucia la neve cadde alta quattro palmi nel lago morto alla Salonia, e tutto
all'intorno per miglia e miglia che non si vedeva altro per tutta la campagna, come venne
il giorno. - Quella volta sarebbe stata la rovina di massaro Neri, come fu per tanti altri
del paese, se Jeli non si fosse alzato nella notte tre o quattro volte a cacciare le
pecore pel chiuso, così le povere bestie si scuotevano la neve di dosso, e non rimasero
seppellite come tante ce ne furono nelle mandre vicine - a quel che disse massaro
Agrippino quando venne a dare un'occhiata ad un campicello di fave che ci aveva alla Salonia,
e disse pure che di quell'altra storia del figlio di massaro Neri, il quale doveva sposare
sua figlia Mara, non era vero niente, ché Mara aveva tutt'altro per il capo.
- Se avevano detto che dovevano sposarsi a Natale! - disse Jeli.
- Non vero niente, non dovevano sposare nessuno! tutte chiacchiere di gente
invidiosa che si immischia negli affari altrui! - rispose massaro Agrippino.
Però il campaio, il quale la sapeva più lunga, per averne sentito parlare in
piazza, quando andava in paese la domenica, raccontò invece la cosa tale e quale com'era,
dopo che massaro Agrippino se ne fu andato: non si sposavano più perché il figlio di
massaro Neri aveva risaputo che Mara di massaro Agrippino se la intendeva con don Alfonso,
il signorino, il quale aveva conosciuta Mara da piccola; e massaro Neri aveva detto che il
suo ragazzo voleva che fosse onorato come suo padre, e delle corna in casa non le voleva
altre che quelle dei suoi buoi.
Jeli era lì presente anche lui, seduto in circolo cogli altri a colazione, e
in quel momento stava affettando il pane. Egli non disse nulla, ma l'appetito gli andò
via per quel giorno.
Mentre conduceva al pascolo le pecore tornò a pensare a Mara, quando era
ragazzina, che stavano insieme tutto il giorno e andavano nella valle del Jacitano
e sul poggio alla croce, ed ella stava a guardarlo col mento in aria mentre egli si
arrampicava a prendere i nidi sulle cime degli alberi; e pensava anche a don Alfonso, il
quale veniva a trovarlo dalla villa vicina, e si sdraiavano bocconi sull'erba a stuzzicare
con un fuscellino i nidi di grilli. Tutte quelle cose andava rimuginando per ore ed ore,
seduto sull'orlo del fossato, tenendosi i ginocchi fra le braccia, e i noci alti di Tebidi,
e le folte macchie dei valloni, e le pendici delle colline verdi di sommacchi, e gli ulivi
grigi che si addossavano nella valle come nebbia, e i tetti rossi del casamento, e il
campanile «che sembrava un manico di saliera» fra gli aranci del giardino. - Qui la
campagna gli si stendeva dinanzi brulla, deserta, chiazzata dall'erba riarsa, sfumando
silenziosa nell'afa lontana.
In primavera, appena i baccelli delle fave cominciavano a piegare il capo,
Mara venne alla Salonia col babbo e la mamma, e il ragazzo e l'asinello, a
raccogliere le fave, e tutti insieme vennero a dormire alla fattoria pei due o tre giorni
che durò la raccolta. Jeli in tal modo vedeva la ragazza mattina e sera, e spesso
sedevano accanto al muricciolo dell'ovile, a discorrere insieme, mentre il ragazzo contava
le pecore.
- Mi pare d'essere a Tebidi, - diceva Mara, - quando eravamo piccoli, e
stavamo sul ponticello della viottola -.
Jeli si rammentava di ogni cosa anche lui, sebbene non dicesse nulla, perché
era stato sempre un ragazzo giudizioso e di poche parole.
Finita la raccolta, alla vigilia della partenza, Mara venne a salutare il
giovanotto, nel tempo che ei stava facendo la ricotta, ed era tutto intento a raccogliere
il siero colla cazza.
- Ora ti dico addio, - gli disse ella, - poiché domani torniamo a Vizzini.
- Come sono andate le fave?
- Male sono andate! la lupa le ha mangiate tutte, quest'anno.
- Dipende dalla pioggia che è stata scarsa, - disse Jeli. - Figurati che si
è dovuto uccidere anche le agnelle perché non avevano da mangiare; su tutta la Salonia
non venne tre dita di erba.
- Ma a te poco te ne importa. Il salario l'hai sempre, buona o mal'annata!
- Sì, è vero, - disse lui; - ma mi rincresce dare quelle povere bestie in
mano al beccaio.
- Ti ricordi quando sei venuto per la festa di San Giovanni, ed eri rimasto
senza padrone?
- Sì, me lo ricordo.
- Fu mio padre che ti allogò qui, da massaro Neri.
- E tu perché non l'hai sposato il figlio di massaro Neri?
- Perché non c'era la volontà di Dio. - Mio padre è stato sfortunato, -
riprese di lì a poco. - Dacché ce ne siamo andati a Marineo ogni cosa ci è
riuscita male. La fava, il seminato, quel pezzetto di vigna che ci abbiamo lassù. Poi,
mio fratello è partito soldato, e ci è morta pure una mula che valeva quarant'onze.
- Lo so, - rispose Jeli, - la mula baia!
- Ora che abbiamo perso la roba, chi vuoi che mi sposi? -
Mara andava sminuzzando uno sterpolino di pruno, mentre parlava, col mento sul
seno, e gli occhi bassi, e col gomito stuzzicava un po' il gomito di Jeli, senza badarci.
Ma Jeli, cogli occhi sulla zangola anche lui, non rispondeva nulla; sicché ella riprese:
- A Tebidi dicevano che saremmo stati marito e moglie, lo rammenti?
- Sì, - disse Jeli, e posò la cazza sull'orlo della zangola. - Ma io sono un
povero pecoraio, e non posso pretendere alla figlia di un massaro come sei tu -.
La Mara rimase un pochino zitta e poi disse:
- Se tu mi vuoi, io per me ti piglio volentieri.
- Davvero?
- Sì, davvero.
- E massaro Agrippino cosa dirà?
- Mio padre dice che ora il mestiere lo sai, e tu non sei di quelli che vanno
a spendere il loro salario, ma di un soldo ne fai due, e non mangi per non consumare il
pane, così arriverai ad aver delle pecore anche tu, e ti farai ricco.
- Se è così, - conchiuse Jeli, - ti piglio volentieri anch'io.
- To'! - gli disse Mara, come si era fatto buio, e le pecore andavano
tacendosi a poco a poco, - se vuoi un bacio adesso te lo do, poiché saremo marito e
moglie -.
Jeli se lo prese in santa pace, e non sapendo che dire aggiunse:
- Io t'ho sempre voluto bene, anche quando volevi lasciarmi pel figlio di
massaro Neri... - Ma non ebbe cuore di dirgli di quell'altro.
- Non lo vedi? eravamo destinati! - conchiuse Mara.
Massaro Agrippino infatti disse di sì, e la gnà Lia mise insieme presto un
giubbone nuovo, e un paio di brache di velluto per il genero. Mara era bella e fresca come
una rosa, con quella mantellina bianca che sembrava l'agnello pasquale, e quella collana
d'ambra che le faceva il collo bianco; sicché Jeli, quando andava per le strade al fianco
di lei, camminava impalato, tutto vestito di panno e di velluto nuovo, e non osava
soffiarsi il naso col fazzoletto di seta rosso, per non farsi scorgere; ma i vicini e
tutti quelli che sapevano la storia di don Alfonso gli ridevano sul naso. Quando Mara
disse sissignore, e il prete gliela diede in moglie con un gran crocione, Jeli se
la condusse a casa, e gli parve che gli avessero dato tutto l'oro della Madonna, e tutte
le terre che aveva visto cogli occhi.
- Ora che siamo marito e moglie, - le disse giunti a casa, seduto di faccia a
lei, e facendosi piccino piccino, - ora che siamo marito e moglie, posso dirtelo che non
mi par vero che tu m'abbia voluto... mentre avresti potuto prenderne tanti meglio di me...
così bella come tu sei!... -
Il poveraccio non sapeva dirle altro, e non capiva nei panni nuovi dalla
contentezza di vedersi Mara per casa, che rassettava e toccava ogni cosa, e faceva la
padrona. Egli non trovava il verso di spiccicarsi dall'uscio per tornarsene alla Salonia;
quando fu venuto il lunedì, indugiava nell'assettare sul basto dell'asinello le bisacce,
e il tabarro, e il paracqua d'incerata.
- Tu dovresti venirtene alla Salonia anche te! - disse alla moglie che
stava a guardarlo dalla soglia. - Tu dovresti venirtene con me -.
Ma la donna si mise a ridere, e gli rispose che ella non era nata a far la
pecoraia, e non aveva nulla da andare a farci alla Salonia.
Infatti Mara non era nata a far la pecoraia, e non ci era avvezza alla
tramontana di gennaio, quando le mani si irrigidiscono sul bastone, e sembra che vi
caschino le unghie, e ai furiosi acquazzoni, in cui l'acqua vi penetra fino alle ossa, e
alla polvere soffocante delle strade, quando le pecore camminano sotto il sole cocente, e
al giaciglio duro e al pane muffito, e alle lunghe giornate silenziose e solitarie, in cui
per la campagna arsa non si vede altro di lontano, rare volte, che qualche contadino nero
dal sole, il quale si spinge innanzi silenzioso l'asinello, per la strada bianca e
interminabile. Almeno Jeli sapeva che Mara stava al caldo sotto le coltri, o filava
davanti al fuoco, in crocchio colle vicine, o si godeva il sole sul ballatoio, mentre egli
tornava dal pascolo stanco ed assetato, o fradicio di pioggia, o quando il vento spingeva
la neve dentro il casolare, e spegneva il fuoco di sommacchi. Ogni mese Mara andava a
riscuotere il salario dal padrone, e non le mancavano né le uova nel pollaio, né l'olio
nella lucerna, né il vino nel fiasco. Due volte al mese poi Jeli andava a trovarla, ed
ella lo aspettava sul ballatoio, col fuso in mano; poi quando gli aveva legato l'asino
nella stalla e toltogli il basto e messogli la biada nella greppia, e riposta la legna
sotto la tettoia nel cortile, o quel che portava in cucina, Mara l'aiutava ad appendere il
tabarro al chiodo, e a togliersi le gambiere fradice, davanti al focolare, e gli versava
il vino, mentre la minestra bolliva allegramente, ed ella apparecchiava il desco, cheta
cheta e previdente come una brava massaia, nel tempo stesso che gli parlava di questo e di
quello, della chioccia che aveva messo a covare, della tela che era sul telaio, del
vitello che allevavano, senza dimenticare una sola delle faccenduole di casa, ché Jeli si
sentiva di starci come un Papa.
Ma la notte di Santa Barbara tornò a casa ad ora insolita, che tutti i lumi
erano spenti nella stradicciuola, e l'orologio della città suonava la mezzanotte. Una
notte da lupi, che proprio il lupo gli era entrato in casa, mentre lui andava all'acqua e
al vento per amor del salario, e della giumenta del padrone ch'era ammalata, e ci voleva
il maniscalco subito subito. Bussò e tempestò all'uscio, chiamando Mara ad alta voce,
mentre l'acqua gli pioveva addosso dalla grondaia, e gli usciva dalle calcagna. Sua moglie
venne ad aprirgli finalmente, e cominciò a strapazzarlo quasi fosse stata lei a
scorrazzare pei campi con quel tempaccio, con una faccia che lui chiese: - Che c'è?
Cos'hai?
- Ho che m'hai fatto paura a quest'ora! che ti par ora da cristiani questa?
Domani sarò ammalata!
- Va a coricarti, il fuoco l'accendo io.
- No, bisogna che vada a prender la legna.
- Andrò io.
- No, ti dico! -
Quando Mara ritornò colla legna nelle braccia Jeli le disse:
- Perché hai aperto l'uscio del cortile? Non ce n'era più di legna in
cucina?
- No, sono andata a prenderla sotto la tettoja -.
Ella si lasciò baciare, fredda fredda, e volse il capo dall'altra parte.
- Sua moglie lo lascia a infradiciare dietro l'uscio, - dicevano i vicini, -
quando in casa c'è il tordo! -
Ma Jeli non sapeva nulla, ch'era becco, né gli altri si curavano di
dirglielo, perché a lui non gliene importava niente, e s'era accollata la donna col
danno, dopo che il figlio di massaro Neri l'aveva piantata per aver saputo la storia di
don Alfonso. Jeli invece ci viveva beato e contento nel vituperio, e s'ingrassava come un
maiale, «ché le corna sono magre, ma mantengono la casa grassa!».
Una volta infine il ragazzo della mandra glielo disse in faccia, una volta che
vennero alle brutte, per certe pezze di formaggio tosate. - Ora che don Alfonso vi ha
preso la moglie, vi pare di essere suo cognato, e avete messo superbia che vi par di esser
un re di corona, con quelle corna che avete in testa -.
Il fattore e il campaio si aspettavano di veder scorrere il sangue allora; ma
invece Jeli stette zitto quasi non fosse fatto suo, con una faccia di grullo che le corna
gli stavano bene davvero.
Ora si avvicinava la Pasqua e il fattore mandava tutti gli uomini della
fattoria a confessarsi, colla speranza che pel timor di Dio non rubassero più. Jeli andò
anche lui, e all'uscir di chiesa cercò del ragazzo con cui erano corse le male parole e
gli buttò le braccia al collo dicendogli:
- Il confessore mi ha detto di perdonarti; ma io non sono in collera con te
per quelle chiacchiere; e se tu non toserai più il formaggio a me non me ne importa nulla
di quello che mi hai detto nella collera -.
Fu da quel momento che lo chiamarono per soprannome Corna d'oro, e il
soprannome gli rimase, a lui e tutti i suoi, anche dopo che ci si lavò le corna, nel
sangue.
La Mara era andata a confessarsi anche lei, e tornava di chiesa tutta raccolta
nella mantellina, cogli occhi bassi che sembrava una Santa Maria Maddalena. Jeli che
l'aspettava taciturno sul ballatoio, come la vide venire a quel modo, che si vedeva come
ci avesse il Signore in corpo, la stava a guardare pallido pallido dai piedi alla testa,
quasi la vedesse per la prima volta, o gliela avessero cambiata, la sua Mara, e neppure
osava alzare gli occhi su di lei, mentre ella sciorinava la tovaglia, e metteva in tavola
le scodelle, tranquilla e pulita al suo solito. Egli, dopo averci pensato su un poco, le
domandò freddo freddo:
- È vero che te la intendi con don Alfonso? -
Mara gli piantò in faccia i suoi begli occhi limpidi, e si fece il segno
della croce.
- Perché volete farmi far peccato in questo giorno! - esclamò.
- No! non voglio crederci ancora!... perché con don Alfonso eravamo sempre
insieme, quando eravamo ragazzi, e non passava giorno ch'ei non venisse a Tebidi,
proprio come due fratelli... Poi egli è ricco che i denari li ha a palate, e se volesse
delle donne potrebbe maritarsi, né gli mancherebbe la roba, o il pane da mangiare -.
Mara invece andavasi riscaldando, e cominciò a strapazzarlo in malo modo,
tanto che lui non alzava più il naso dal piatto.
Infine perché quella grazia di Dio che stavano mangiando non andasse in
tossico, Mara cambiò discorso, e gli domandò se ci avesse pensato a far zappare quel po'
di lino che avevano seminato nel campo delle fave.
- Sì, - rispose Jeli, - e il lino verrà bene.
- Se è così, - disse Mara, - in questo inverno ti farò due camicie nuove
che ti terranno caldo -.
Insomma Jeli non lo capiva quello che vuol dire becco, e non sapeva cosa fosse
la gelosia; ogni cosa nuova stentava ad entrargli in capo, e questa poi gli riusciva così
grossa che addirittura faceva una fatica del diavolo ad entrarci, massime allorché si
vedeva dinanzi la sua Mara, tanto bella, e bianca, e pulita, che l'aveva voluto lei
stessa, e le voleva tanto bene, e aveva pensato a lei tanto tempo, tanti anni, fin da
quando era ragazzo, che il giorno in cui gli avevano detto com'ella volesse sposarne un
altro, non aveva avuto più cuore di mangiare o di bere tutta la giornata. - Ed anche se
pensava a don Alfonso, non poteva credere a una birbonata simile, lui che gli pareva di
vederlo ancora, cogli occhi buoni e la boccuccia ridente con cui veniva a portargli i
dolci e il pane bianco a Tebidi, tanto tempo fa - un'azionaccia così nera! e
dacché non lo aveva più visto, perché egli era un povero pecoraio, e stava tutto l'anno
in campagna, gli era sempre rimasto in cuore a quel modo. Ma la prima volta che per sua
disgrazia rivide don Alfonso già uomo fatto, Jeli sentì come una botta allo stomaco.
Come s'era fatto grande e bello! con quella catena d'oro sul panciotto, e la giacca di
velluto, e la barba liscia che pareva d'oro anch'essa. Niente superbo poi, tanto che gli
batté sulla spalla salutandolo per nome. Era venuto col padrone della fattoria insieme a
una brigata d'amici, a fare una scampagnata nel tempo che si tosavano le pecore; ed era
venuta pure Mara all'improvviso, col pretesto che era incinta e aveva voglia di ricotta
fresca.
Era una bella giornata calda, nei campi biondi, colle siepi in fiore, e i
lunghi filari verdi delle vigne. Le pecore saltellavano e belavano dal piacere, al
sentirsi spogliate da tutta quella lana, e nella cucina le donne facevano un bel fuoco per
cuocere la gran roba che il padrone aveva portato per il desinare. I signori intanto che
aspettavano si erano messi all'ombra, sotto i carrubi, e facevano suonare i tamburelli e
le cornamuse, o ballavano colle donne della fattoria, chi ne aveva voglia. Jeli mentre
andava tosando le pecore, si sentiva rodere dentro di sé, senza sapere perché, come uno
spino, un chiodo fitto, una forbice fine che gli lavorasse dentro minuta minuta, peggio di
un veleno. Il padrone aveva ordinato che si sgozzassero due capretti, e il castrato di un
anno, e dei polli, e un tacchino. Insomma voleva fare le cose in grande, senza risparmio,
per farsi onore coi suoi amici, e mentre tutte quelle bestie schiamazzavano dal dolore, e
i capretti strillavano sotto il coltello, Jeli si sentiva tremare le ginocchia e di tratto
in tratto gli pareva che la lana che andava tosando e l'erba in cui le pecore saltellavano
avvampassero di sangue.
- Non andare! - disse egli a Mara, come don Alfonso la chiamava perché
venisse a ballare cogli altri. - Non andare, Mara!
- Perché?
- Non voglio che tu vada! Non andare!
- Lo senti che mi chiamano? -
Egli non disse altro, fattosi brutto come la malanuova, mentre stava curvo
sulle pecore che tosava. Mara si strinse nelle spalle, e se ne andò a ballare. Ella era
rossa ed allegra, cogli occhi neri che sembravano due stelle, e rideva che le si vedevano
i denti bianchi, e tutto l'oro che aveva indosso le sbatteva e le scintillava sulle guance
e sul petto che pareva la Madonna tale e quale. Jeli un tratto si rizzò sulla vita, colla
lunga forbice in pugno, così bianco in viso, così bianco come era una volta suo padre il
vaccajo, quando tremava dalla febbre accanto al fuoco, nel casolare. Guardò don Alfonso,
colla bella barba ricciuta, e la giacchetta di velluto e la catenella d'oro sul panciotto,
che prendeva Mara per la mano e l'invitava a ballare; lo vide che allungava il braccio,
quasi per stringersela al petto, e lei che lo lasciava fare - allora, Signore
perdonategli, non ci vide più, e gli tagliò la gola di un sol colpo, proprio come un
capretto.
Più tardi, mentre lo conducevano dinanzi al giudice, legato, disfatto, senza
che avesse osato opporre la minima resistenza:
- Come, - diceva - non dovevo ucciderlo nemmeno?... Se mi aveva preso la
Mara!... -
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