Filisto
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Filisto oltre che storico fu uomo d'affari e facoltoso commerciante, forse di nobile famiglia siracusana. Nato nel 430 a.C. circa, in politica appoggiò l'azione di Dionisio il vecchio (432 - 367), del quale pare fosse parente (Suida); ma dovette accettare un esilio inflittogli dal tiranno nel 386 a.C. Fu una occasione propizia questa, che diede stimoli "danteschi" allo storico, che durante le sue peregrinazioni (soggiornò ad Adria) dovette essere allievo di Eveno (Suida), poeta elegiaco ricordato da Platone (Fedro). L'incarico che ricoprì sotto Dionigi il vecchio (Dionisio I) fu quello di governatore dell'acropoli di Siracusa; incarico che riebbe al suo rientro, alla morte del tiranno che lasciò a Siracusa colonie come Ancona e la Corsica. A rivolerlo in patria fu il figlio del tiranno, Dionigi il giovane, nel 367 a.C. Ma due anni dopo, per l'incarico avuto - comandante di flotta - durante la guerra con Dione Filisto, lo storico Filisto perì. Leggiamo a proposito Plutarco:

"Quelli che guerra faceano a Dione, temendo il cangiamento di Dionigi, il persuasero a richiamare dall'esilio Filisto, uomo versato nell'eloquenza e pratichissimo dei costumi dei tiranni, per contrapporlo a Platone e alla filosofia. Imperciocché questo Filisto dato s'era da principio a cooperare con animo prontissimo allo stabilimento della tirannide, e avea per ben lunga pezza difesa la rocca, dov'era ei comandante della guarnigione. E correa voce che usato egli avesse anche colla madre del vecchio Dionigi, il che non era affatto ignoto al tiranno. Ma dopo che Leptine, avendo avute due figliuole da una donna da esso viziata (quantunque mogliera di un altro), n'ebbe data una a Filisto, senza farne parola a Dionigi; irritatosi questi, metter fece in prigione fra ceppi quella donna di Leptine, e cacciò di Sicilia Filisto, il quale rifugiassi presso certi suoi ospiti in Adria; dove sembra che composta abbia la maggior parte della sua storia, trovandosi quivi disoccupato: perocché non ritornossi più in Sicilia vivente il vecchio Dionisio: ma solo dopo la di lui morte vel ricondusse, come si è detto, l'astio che gli altri aveano contro Dione, veggendo eglino questo Filisto più adattato a loro medesimi, e più forte a sostenere la tirannide. Costui adunque, appena tornato se ne fece fautore.

(...) In questa costituzione di cose giunse Platone in Sicilia; e nel primo incontro accolto vi fu con ammirabile amorevolezza ed onore. Conciosiacché al discendere dalla trireme ritrovò in pronto uno dei regj cocchj magnificamente adornato, e il tiranno sacrificò, come avvenuta fosse al suo regno una grande felicità. La modestia pertanto dei conviti, la compostezza della corte, e la mansuetudine del tiranno stesso in tutte le udienze ch'ei dava, erano cose che nascer faceano meravigliose speranze nei cittadini del di lui cangiamento; e tutti portati erano da un certo impetuoso ardore alle lettere e alla filosofia: e l'abitazione del tiranno seminata era tutta, per quel che vien detto, di polvere, per la grande quantità di coloro che vi si esercitavano nella geometria.
Trascorsi parecchi giorni, facevasi nell'abitazione medesima, per antica usanza, un sacrificio: e fatta essendosi preghiera dal banditore, siccome era solito farsi, che rimanesse la tirannide salda per lungo tempo e inconcussa, raccontasi che Dionigi, il quale era ivi presente, disse: 'E non cesserai tu di farci queste esecrazioni?' Questa cosa increbbe sommamente a Filisto e a quelli della sua fazione, i quali congetturavano quindi che coll'andare del tempo e coll'uso la possanza di Platone renduta sarebbesi insuperabile, se ormai coll'aver praticato col giovane per sì pochi dì, n'avea sì fattamente diversificato e mutato l'animo". (VIII). Non più adunque ad uno ad uno e di nascosto ma tutti insieme e apertamente si diedero a straziare Dione, dicendo che ben si vedea com'ei cercava d'incantare e di affascinare Dionigi coll'eloquenza di Platone, acciocché, rinunziando e deponendo esso volontariamente il dominio, potess'ei trasferirlo nei figliuoli di Aristomaca, dei quali egli era zio. (...) Produr voleva Dione le sue discolpe; ma Dionigi nol comportò, e cacciatolo tosto, come si trovava, in una piccola barca, ordinò ai marinai di menarlo via e metterlo giù in Italia". (Vita di Dione, VII, VIII; a cura di G. Pompei, Le Monnier, Firenze, 1846).

Esiliato Dione, Dionisio notò dei malumori nel popolo, e volle prendere la precauzione di bloccare i movimenti di Platone, lo forzò ad essere ospitato in una rocca. Ma tali avvenimenti sono narrati nella scheda su Platone. Dionisio comunque solo ritardò la sua caduta, poiché dopo un successivo intervento armato di Dione, intervenne nel 344 Timoleonte che lo sconfisse e lo mandò in esilio a Corinto. Peggior sorte in precedenza era toccata a Filisto, e sempre da Plutarco apprendiamo i crudi particolari:

"Da che poscia Filisto venuto fu da Japigia con molte triremi a soccorso di Dionigi, pensavano allora i Siracusani che quegli stranieri, essendo pedoni gravemente armati, non potessero essere più d'uso alcuno per la guerra, e dovessero sottomettersi a loro, che uomini eran di nave, e che dalle navi appunto renduti erano assai poderosi. Viemaggiormente poi si levarono essi in orgoglio per la buona fortuna, ch'ebbero in mare di vincere Filisto, che crudelmente e barbaramente trattarono. Racconta Eforo che, presa che fu la nave, Filisto si uccise da se medesimo: ma Timonide, il quale sin da principio si trovò presente a quei fatti insieme con Dione, scrivendo a Speusippo filosofo, narra che Filisto preso fu vivo, avendo la sua trireme cozzato in terra; e che i Siracusani, spogliatolo primamente della corazza e denudatolo, ne fecer ludibrio, essendo ei di già vecchio; e che poscia gli troncaron la testa, e ne diedero il corpo ai fanciulli, comandando loro di strascinarlo per l'Acradina, e gittarlo alfine giù nelle latomie". (Vita di Dione, XXIII; op. cit.).

Filisto, oltre che sfortunato uomo d'armi fu storico lodevole. E grazie a Diodoro, sappiamo che la sua opera storica, riconosciuta seria ed affidabile, era costituita da una Storia della Sicilia in sette libri, che evitava di indugiare sulle notizie incerte, legate anche alla mitologia, per dedicare spazio e riflessioni sull'opera dei tiranni, da lui appoggiati, e giungendo alla conclusione - sorprendente per l'epoca - che sono le singole personalità che spesso sono capaci di sovvertire l'ordine costituito, scrivendo nuove, impreviste, pagine di storia. La Storia della Sicilia terminava cogli avvenimenti del 406 a.C., per poi continuare, con altri 4 tomi, con la Storia di Dionigi, dedicati alla vita politica del tiranno, fino al 367.

Il suo ritorno dall'esilio gli permise di comporre l'ultima parte della sua opera, su Dionigi II, in altri due volumi. A corte, riferisce Ateneo (20, a) amava divertirsi agli spettacoli ideati da artisti girovaghi:

"C'erano famosi giocolieri anche alla corte di Alessandro, da Scimno di Taranto e da Filisto di Siracusa e Eracleito di Mitilene" (Ateneo, op. cit.)

Del totale di tredici libri (detta Sikelika) disponiamo oggi solo di pochi frammenti, persino costituiti da spezzoni di frasi, in dialetto attico lodato dai commentari della Suida per lo stile ossequioso delle norme retoriche. Ed ebbe nuova fama con l'opera di recupero di Dionigi di Alicarnasso.

L'opera di Filisto, apertamente a favore dei regimi tirannici, fu ammirata per il suo valore, ma osteggiata dagli storici favorevoli a forme di governo diverse, come Timeo, ed apprezzata ed emulata dagli storici a Filisto posteriori, come quelli che lavorarono alla corte di Timoleonte ed Agatocle.

 

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