Dionisio, due tiranni Siracusa
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Dionisio è il nome dei due tiranni, padre (432-367 a.C.) e figlio, che si sono succeduti tra il quinto ed il quarto secolo a.C. al potere a Siracusa. Vogliamo in queste righe inserire dei riferimenti sulla loro corte che non sapremmo prendere in considerazione in modo più semplice. Oltre ciò furono autori anch'essi di opere quasi certamente minori.

Nella Suida questo è quanto si legge:

"Tiranno di Sicilia; scrisse tragedie, commedie ed opere storiche. Sebbene esistessero altrove altri tiranni (di Sicilia), tuttavia la più grave e violenta vessazione della quale tutte le città (di quell'isola) furono afflitte, fu proprio dal tiranno Dionisio. Dionisio figlio del tiranno di Sicilia, ed egli stesso tiranno e filosofo, scrisse epistole; ed un componimento in versi su Epicarmo". (Trad. Schiavone).

Frammenti:

"Filippo il Macedone durante un banchetto si mise a parlare ironicamente dei carmi e delle tragedie che Dionisio il Vecchio aveva lasciato, e finse di non capire quando egli aveva trovato il tempo per scriverle. Dionisio gli rispose argutamente dicendo: 'Le scrisse nel tempo che tu ed io e tutti gli altri signori che sono creduti beati occupiamo intorno alle oppe'". (Vita di Timoleonte, 15; a cura di C. Carena, Einaudi, 1958).

Tale sarcasmo fu possibile perché a quel tempo il feroce Dionisio II era in esilio a Corinto (dal 344 a.C. in poi).

Non abbiamo trovato altre tracce dei lavori letterari del sovrano, ma avrebbero solo avuto importanza storica. La personalità del tiranno avrebbe potuto rivelarsi, permettendoci di dire di più, oltre la sua voglia di conquiste anche nei cuori dei suoi colti ospiti. Di loro, tanti, parleremo adesso; di Iceta siracusano possiamo solo dire che pare sia stato il primo ad asserire che "la terra si muove secondo un circolo" (Diogene, VIII, 85; op. cit). E che Cicerone ne parla ripetendo il suo pensiero circa il sole e le stelle che, cogli altri astri, stanno fermi, e che a muoversi sia solo la Terra, intorno al suo asse. Iceta credeva inoltre alla esistenza di una seconda Terra, l'antiterra. Andremmo qui fuori tema se accennassimo alle recentissime teorie sulla esistenza della antimateria. Ma le speculazioni dell'età classica meritano questa riga di Stephen Hawking a proposito della composizione degli elementi dell'universo ordinata da Aristotele: "Questa divisione del contenuto fisico dell'universo in materia e forze viene usata ancor oggi". (Dal big bang ai buchi neri, Rizzoli, 1988, Milano)

Nella scheda su Timeo leggeremo del filosofo Senocrate che fu ospite alla corte siracusana. Si tratta dell'allievo di Platone, e suo prosecutore alla guida dell'Accademia fondata nel 387 a.C.

Platone, suo maestro, fu ospite - anche controvoglia - dei due Dionisio nel 388, 367, e 361 a.C. con dei suoi allievi.

Al tempo del primo viaggio Senocrate (395 - 314 a.C.) era ancora bambino, quindi deve aver seguito il maestro nei suoi due viaggi successivi. Anticipiamo qui il frammento di Timeo:

"Timeo dice che 'Dionisio il tiranno durante la Celebrazione delle Brocche offriva in premio una corona d'oro a colui che per primo svuotava la sua brocca; ed il primo che finì fu il filosofo Senocrate, il quale prese la corona e, lasciando i compagni, la sistemò sul capo della statua di Hermes, che stava nella corte. In ciò seguendo la sua abitudine di deporre le corone di fiori lì ogni volta che rientrava la sera a casa. Per tale gesto venne molto ammirato". (Ateneo; 437; b; op. cit.).

E Diogene Laerzio, oltre a ripetere quanto sopra (IV, 8) scrive:

"Senocrate figlio di Agatenore nacque a Calcedonia. Fin da giovinetto udì le lezioni di Platone, ma lo accompagnò anche in Sicilia. Era tardo d'ingegno, sì che Platone paragonandolo con Aristotele soleva dire: 'L'uno ha bisogno di sprone, l'altro di freno' e anche 'Quale asino io alleno a lottare contro un tale cavallo!'" (IV, 6; op. cit.). Ed ancora: "Dionisio disse una volta a Platone che gli avrebbe tagliato la testa; Senocrate che era presente (replicò) 'Nessuno colpirà la testa di Platone prima della mia' disse, indicando la sua testa". (IV, 11).
E ci piace riferire che "una volta che Alessandro gli mandò una grossa somma di danaro, egli trattenne per sé soltanto tremila dracme attiche e gli rinviò il resto, perché Alessandro che doveva mantenere tante persone ne aveva più bisogno di lui". (IV, 8).

Senocrate fu per un quarto di secolo la guida dell'Accademia, istituzione che durò nove secoli, venendo soppressa dall'imperatore Giustiniano nel 529 d.C. Diogene Laerzio riferisce che anche i filosofi socratici Aristippo, Eschine, il pitagorico Archita ed il tragico Carcino furono ospiti a corte.

"Dicono che (Eschine; n.d.A.) per bisogno venne in Sicilia da Dionisio e che mentre fu negletto da Platone fu invece presentato a Dionisio da Aristippo e che offrì alcuni dialoghi a Dionisio, dal quale ricevette doni". (II, 61). La vita di corte si svolgeva tra speranze di guadagno, sicurezza di una dolce vita, da parte degli illustri ospiti, che comunque non perdevano per questo la loro autonomia di giudizio o senso critico nei riguardi di chiunque.

Nelle pagine su Filosseno si ha una conferma a proposito. E si legge in Diogene Laerzio:

"Dicono alcuni, tra cui anche Satiro, che (Platone) scrisse a Dione in Sicilia di comprargli i tre libri pitagorici di Filolao per cento mine. Dicono infatti che fosse in condizioni agiate per aver ricevuto da Dionisio più di ottanta talenti, come anche Onetore dice nell'opera che si intitola Se il sapiente debba arricchire (...) Altri dicono che Platone abbia ricevuto questo volume per aver ottenuto da Dionisio la liberazione dalla prigione di un giovinetto, discepolo di Filolao" (Vite dei filosofi; VIII, 85; op. cit.).

Così Diogene Laerzio ci mostra un momento sempre importante tra quelli vissuti accanto ad un sovrano, durante il banchetto:

"Costretto una volta (Aristippo, n.d.A.) da Dionisio a dire qualcosa di filosofia, disse: 'Sarebbe ridicolo se tu vuoi sapere da me l'arte del dire e mi vuoi insegnare quando bisogna dire'.
Dionisio s'indignò per questa battuta e lo relegò all'ultimo posto del convito, ma Aristippo disse: 'Volesti rendere più illustre l'ultimo posto'.
(Vite dei filosofi, II, 73. op.cit.)

Ma il tiranno si difendeva a modo suo, in un'altra occasione infatti:

"Dionisio gli sputò addosso e a un tale che gli rimproverò di non essersi ribellato rispose: 'I pescatori si lasciano spruzzare dall'acqua del mare per pescare un gobio; io per prendere un blenno non dovrei sopportare di essere asperso di saliva?'".

Di momenti più lieti si racconta che "Una volta Dionisio lo invitò a scegliersi una delle tre etere che gli offriva ed egli le portò via tutte e tre, dicendo: 'Neppure a Paride portò vantaggio la scelta di una sola'".

"Una volta Dionisio durante un simposio ordinò a ciascuno di indossare una veste purpurea e danzare. Platone rifiutò, citando il verso - Non potrei indossare una veste femminile - . Ma Aristippo l'indossò e, accingendosi alla danza, colpì nel segno con quest'altra citazione: anche nelle feste bacchiche colei che è pura non si corromperà".

Nei momenti gravi Aristippo, spendaccione e gaudente, sagace e istrionico, sapeva essere umile e furbo al contempo:

"Una volta intercedeva per un amico presso Dionisio; non ottenendo quel che voleva gli si gettò ai piedi. A chi lo schernì per questo gesto, diceva: 'Non ho colpa io, ma Dionisio che ha le orecchie nei piedi'".

La convivenza di potere e genuino sapere era forzata, e ne erano ben consapevoli i protagonisti di ogni parte, pur se si accettavano pel reciproco vantaggio, anche solo esteriore.

"Dionisio una volta gli chiese perché i filosofi vanno alle case dei ricchi e i ricchi non vanno a quelle dei filosofi, ed egli rispose: 'Perché gli uni sanno di che cosa hanno bisogno, gli altri non sanno'". Ed ancora il tiranno lo stuzzicò con uguale argomento:

"Dionisio una volta gli chiese perché mai fosse venuto, ed egli rispose: 'Quando avevo bisogno di sapienza, andavo da Socrate; ora che ho bisogno di danaro, vengo da te'".

Aristippo scrisse i lavori, tra molti altri, Sentenza per Dionisio, e Sulla figlia di Dionisio.

Vi erano comunque filosofi cui ripugnava lo scambio con benessere che il prestigio della loro scienza consentiva, ed una volta Platone rimproverò il suo allievo per lo sfoggio di sfarzo che la generosità della corte gli consentiva:Ti pare che Dionisio sia un uomo buono?", disse; ed al sì del maestro concluse: "Eppure egli vive più sontuosamente di me; dunque nulla impedisce di vivere ad un tempo sontuosamente e bene". Ma Platone stesso venne rimproverato da Diogene il Cane, che disse:

"'Come mai tu, filosofo che navigasti in Sicilia proprio per siffatte mense, ora che ti sono imbandite non ne godi? Ed egli di rimando: 'Ma per gli dei, o Diogene, anche là mi cibavo di olive e semplici cose'. E Diogene: 'Che bisogno c'era allora di andare a Siracusa? Forse allora l'Attica non produceva olive?'"

Lo scontro ebbe poi altri seguiti:

"Platone lo vide mentre lavava la verdura e gli si avvicinò mormorandogli nell'orecchio: 'Se tu corteggiassi Dionisio, non laveresti la verdura'. Diogene gli rispose egualmente nell'orecchio: 'E se tu lavassi la verdura non saresti cortigiano di Dionisio'".
"Durante un ricevimento offerto da Platone ad amici che venivano da Dionisio, Diogene calpestando i suoi tappeti disse: 'Calpesto l'orgoglio di Platone'. E Platone: 'Con altro orgoglio, o Diogene'".

E Diogene ne aveva anche per il tiranno:

"Gli fu chiesto anche in che modo Dionisio trattasse gli amici, e così rispose: 'Li tratta come sacchi: li appende se son pieni, li butta se son vuoti'". Ed ancora "A chi gli rimproverava che da Dionisio aveva ricevuto danaro, mentre Platone aveva preso un libro, rispose: 'Io ho bisogno di danaro, Platone di libri'".

Tornando ad Aristippo, l'offesa avuta prima dal tiranno la restituì poi a chi poteva subire:

"Una volta Simo, tesoriere di Dionisio - briccone originario della Frigia - gli mostrò una casa magnifica e pavimentata a mosaico; Aristippo espettorò profondamente e gli sputò in faccia. L'altro protestò, ma Aristippo di rimando: 'Non avevo un posto più adatto (qui)'". (Vite dei fil., II 75; op. cit.)

Ma è bello ricordarsi di Aristippo per quanto disse a proposito del valore della filosofia:

"Era solito dire che coloro che possedevano una cultura enciclopedica ma erano digiuni di filosofia, erano simili ai Proci di Penelope. Quelli infatti avevano Melantò e Polidora e le altre ancelle oltre al resto, ma non potevano sposare la padrona stessa". (II, 79)

Ma anche Dionisio non apprezzava, a volte, chi dava il suo insegnamento dietro contraccambio di denaro, come si apprende da questa epistola diretta a Speusippo di Atene:"Quale sia la tua sapienza possiamo apprendere dalla tua discepola di Arcadia (Lastinea o la Assiotea; n.d.A.), perché Platone non esigeva tributi da quelli che lo frequentavano, tu invece imponi i tributi e li esigi da tutti, volenti o nolenti". (Diogene Laerzio; Vite dei filosofi, a cura di M. Gigante, op. cit.).

Ritornando ai banchetti di corte, altra occasione di relazione tra il sovrano, i sudditi, ed i suoi ospiti colti era costituito dalle celebrazioni religiose. Anche durante queste era prassi mangiare e bere anche a dismisura:

"Dopo che la bevanda per Agathoi Daìmonos (un demone benigno; n.d.A.) era stata offerta, era usanza rimuovere i tavoli, come avvenne una volta con Dionisio di Sicilia, per suo sacrilegio. In Siracusa c'era un ripiano in oro dedicato ad Asclepio; quando Dionisio ebbe bevuto in suo onore con vino non allungato di Agathoi Daìmonos, ordinò che venisse asportato il ripiano" (già destinato al demone, e quindi intoccabile; n.d.A.). (Ateneo; 693, e; op. cit.).

Sappiamo che Dionisio si recò un giorno a Taranto, recando in dono una sorta di enorme lume per illuminare la piazza principale della città:

"Euforione nella sue Note storiche dice che Dionisio il Giovane, tiranno di Sicilia, dedicò all'àgora di Taranto un faro capace di reggere tanti lumi accesi quanti sono i giorni dell'anno". (700; d).

Così Plutarco ricostruisce il delicato momento della consegna del potere da Dionisio il Vecchio al proprio figliolo.

"Essendosi quindi ammalato Dionigi, in maniera che già si mostrava in pericolo, procurò Dione di abboccarsi con esso lui intorno ai figliuoli di Aristomaca: ma i medici, volendo far piacere a quello ch'era per essere successore nel regno, non gliene diedero mai l'opportunità: e al dir di Timeo, avendo dato costoro anche un medicamento sonnifero allo stesso Dionigi, che pur lo chiedeva, gli levarono i sentimenti e passare il fecero dal sonno alla morte. (...) Insinuandogli Dione spesse volte siffatte cose, e seminando pur di soppiatto alcuni dei ragionari di Platone, fece sì che Dionigi preso fu da un intenso e furioso desio di udir le dottrine di Platone stesso, e di praticar con lui. Quindi spesseggiavano ben tosto ad Atene le lettere di Dionigi medesimo e le suppliche di Dione e quelle pure dei Pittagorici dall'Italia, i quali anch'essi facevangli istanza perché vi si portasse a raffrenare e ritenere colle più gravi dottrine l'animo di quel giovane, che libero scorrea d'ogni intorno, trovandosi in autorità e possanza ben grande. Platone adunque (come dice ei medesimo) avendo erubescenza in riguardo a se stesso, principalmente perché non paresse ch'ei si fermasse nelle sole parole, e non mettesse mai volentieri la mano ad opera alcuna, e perché lusingavasi che col purgare quel sol uomo, siccome la parte principale e regolatrice, venuto sarebbe a medicar la Sicilia tutta, che malata era, acconsentì". (Vita di Dione, versione di G. Pompei, Le Monnier, Firenze, 1846)

Per continuare tale argomento, con gli avvenimenti che seguirono, causati dagli uomini che cercarono di agire sulla personalità di Dionigi, per far fallire gli insegnamenti di Platone, invitiamo il lettore a leggere la scheda su Filisto. Notiamo come anche i medici di corte, dietro suggerimento dei consiglieri di Dionisio I, impedirono che Dione potesse inserirsi nel gioco di potere siracusano sin da quegli anni.

Si narrano altri aneddoti su Dionisio, su come trascorresse il tempo dell'esilio a Corinto - con fare anonimo, tranquillo, forse per dar l'impressione che si trattava d'un uomo non pericoloso pure per quella città:

"...colui che poc'anzi era tiranno di Sicilia, adesso passava il suo tempo conversando con un pescivendolo o seduto nella bottega d'un profumiere; beveva vino annacquato nelle bettole, o litigava sulla pubblica via con una di quelle donne che traggono lucro dalla propria bellezza; oppure insegnava canzonette alle fanciulle che studiavano musica e disputava seriamente con esse a proposito di canzoni che si eseguivano nei teatri e alla melodia di un carme (...)".

Durante l'esilio si recò a Leucade, e pure lì, forse astutamente, per spirito di adattamento molto sagace, si presentò a chi lo accolse dicendo che si sentiva come un fanciullo che avesse commesso una marachella. Stava coi fratelli - Leucade, come Siracusa, era stata fondata da Corinto - piuttosto che farsi vedere dal genitore, cioè dai corinzi.

Ancora a Corinto uno straniero di passaggio volle prendersi la sodisfazione di canzonarlo, chiedendogli quale insegnamento avesse ricevuto dai tanti filosofi che lui aveva voluto intorno, come Platone;

"Ti pare, rispose, che non abbia tratto nessun profitto da Platone, quando sopporto, come faccio, un cambiamento di fortuna?".

Ma l'esilio, od il passar degli anni che lo vedevano orami uomo maturo, non gli insegnarono tutto quel che avrebbero potuto, ma qualcosa sì: arrivò a dire che "la tirannide è ricca di molti mali, ma non ne ha di grandi come questo: che nessuno di coloro i quali si dicono amici, parla con franchezza al tiranno: per colpa di costoro si era privato della benevolenza di Platone".

Sia che parlasse per matura convinzione - cosa difficile, perché ad essere persone sane nell'animo lo si apprende da bambini - sia che si mostrasse furbo, essendo in pratica in una prigione dorata, ma tra nemici, una lezione di arguzia gliela diede il solito, gran vecchio, Diogene di Sinope: il 'cane' straccione:

"'O Dionisio, tu vivi in una condizione indegna di te'. Dionisio si fermò e rispose: 'O Diogene, mi fa piacere che tu abbia compassione delle mie sventure'. 'Che dici? riprese Diogene, credi che io mi addolori per le tue sventure? Io sono sdegnato invece di vedere che uno schiavo quale sei, degno di invecchiare e morire da tiranno come tuo padre, viva qui con noi divertendosi e godendo". ( Plutarco; Vita di Timoleonte; a cura di C. Carena, Einaudi, 1958).

 

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